La Frusta LetterariaPerché Gesù scelse di predicare in campagna?

In diversi luoghi della sua Storia critica di Gesù Cristo, il filosofo illuminista francese Paul Thiry d’Holbach insiste sulle ragioni per le quali, secondo le sue vedute, la predicazione di Gesù a...

In diversi luoghi della sua Storia critica di Gesù Cristo, il filosofo illuminista francese Paul Thiry d’Holbach insiste sulle ragioni per le quali, secondo le sue vedute, la predicazione di Gesù avvenne, per quasi tutto il triennio indicato dai vangeli, in campagna. Ciò significa che Cristo predicò lontano da Gerusalemme, la città per antonomasia in una regione, la Palestina del primo secolo, per lo più a prevalente carattere rurale.

Le ragioni che d’Holbach adduce sono molto semplici e ovviamente capziose.
a) Nelle campagne Gesù poteva operare i suoi “numeri speciali” quali erano i miracoli (teurgia e taumaturgia, ossia magia generica come la moltiplicazione dei pani e dei pesci e magia speciale applicata al risanamento dei corpi, oltre a quel numero specialissimo che è la resurrezione dei morti: ben tre nel vangelo esclusa l’autoresurrezione di Gesù).
b)C’erano poi ragioni, diciamo così, “strategiche”: occorreva preparare il campo nelle campagne (ci si scusi il bisticcio, voluto) prima del grande assalto alla città, che si concluse, come è noto tragicamente.
c) E infine, ragione da non sottovalutare, la predicazione in campagna era priva di rischi, perché il controllo dei romani era tutto concentrato in città e l’avvento di predicatori li preoccupava pochissimo se detti predicatori si tenevano lontani dal centro del potere religioso, politico, amministrativo, ossia Gerusalemme.

Riporto alcuni brani di d’Holbach dalla Storia critica di Gesù Cristo al fine di averne un quadro testuale completo. (Cito dalla edizione critica Histoire critique de Jésus Christ a cura di Andrew Honwick – Droz Ginevra, 1997, inedita in italiano).

Per credere ai miracoli – argomenta d’Holbach – occorre una semplicità che si riscontra più facilmente nelle campagne che in città; del resto se il volgo si mostra incline anche nelle grandi città, i magistrati e la gente colta fanno diga alla credulità. Lo stesso successe al nostro Taumaturgo a Gerusalemme. Forse disperò di salvare questi miscredenti; quindi nel poco tempo che restò in questa città non si contenne con loro; piuttosto li ingiuriò, anche se non era certo questo il modo di fare proseliti – sebbene spesso i suoi discepoli ed i suoi preti abbiano preteso di riuscire con questi mezzi, ed anche ricorrendo alle vie di fatto.

L’esperienza gli suggeriva [a Gesù] che per guadagnarsi la capitale occorreva incrementare le adesioni nei dintorni, e farsi in campagna un gran numero di adepti che potessero, a tempo e luogo, aiutarlo a superare l’incredulità dei Sacerdoti, dei teologi, dei magistrati, e soggiogare alfine la Città santa oggetto dei suoi desideri. (Cap.IX)

Il timore di essere arrestato aveva indotto Gesù ad abbandonare le città, dove aveva troppi nemici. La campagna diventò il suo soggiorno abituale; il popolo, conquistato dai suoi sermoni, o quantomeno alcuni devoti e devote che aveva convertito, provvedevano alla sussistenza dell’uomo divino e del suo seguito. (Cap. X)

C’è da credere che la predicazione di Gesù durò così a lungo in Giudea perché i Romani non furono troppo contrariati che un popolo irrequieto e turbolento si divertisse a seguito di un uomo come Gesù o un presunto Messia, alla apparizione del quale affioravano le superstizioni del popolo. Sempre sicuri di potere schiacciare gli agitatori di imprese eclatanti, si disinteressavano di ciò che facevano nelle campagne dei vagabondi poco temibili per la loro autorità sostenuta da legioni agguerrite . (Cap.XIII)

Abituato a fare i suoi numeri in campagna e fra gente rozza, non seppe più condursi in città, né riuscire contro nemici avveduti ed illuminati . (Cap.XIV)

Ho confrontato queste asserzioni di d’Holbach con il libro di Adriana Destro –Mauro Pesce – L’uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita, Mondadori, Milano 2008

È un testo che intende avvalersi del punto di vista antropologico anche se come è ovvio deve fare riferimento ad altre discipline: «alla ricostruzione storica della società del tempo, all’esegesi storica e filologica, al confronto con molteplici dati archeologici, narrativi, letterari e religiosi» .
Tuttavia è proprio da un punto di vista strettamente antropologico che Pesce/Destro non riescono a trarre, limitatamente al nostro quesito, particolari vantaggi interpretativi dall’adozione di tale angolatura, a differenza di d’ Holbach, che pur conducendo la sua indagine solo attraverso la repertazione critica dei testi evangelici, avanza interpretazioni antropologiche avant la lettre come sopra abbiamo evidenziato. D’Holbach insiste a più riprese, come abbiamo visto, su questo fatto centrale nella predicazione di Gesù, ossia che essa sia avvenuta solo nei villaggi di campagna dov’era più facile incontrare, vantaggiosamente per lui, unicamente contadini e illetterati, e che, Gesù rifuggisse scientemente la città (Gerusalemme) per paura di incontrare un uditorio di letterati e di intellettuali che lo potessero impegnare, come infatti avvenne alla fine della sua predicazione, con stressanti dispute filologiche circa i testi sacri. In campagna sicuramente si superava il tasso del 90-97 % di analfabetismo della intera popolazione della Palestina del tempo ivi comprese Gerusalemme e le altre città.
Ora, Gesù arresta – fino alla scena finale dell’ingresso a Gerusalemme -, la propria predicazione alle campagne proprio perché parrebbe temere il contraddittorio degli intellettuali (scribi) e adotta un linguaggio di tipo analogico e non concettuale (le parabole a prevalente contenuto rurale: la vigna, il seminatore ecc.) proprio per mettersi in sintonia con il suo uditorio.

Destro/Pesce minimizzano il fattore predicazione in campagna. Scrivono:

Marco dice che Gesù si muoveva per «villaggi, città e campagne» (eis kômas, poleis, agrous, 6,56), ma parla anche di villaggi-città (kômopoleis) che erano forse villaggi con struttura autonoma o città mercato. In Marco, anche la campagna sembra pensata dal punto di vista del centro abitato.

. E anche:

Non bisogna comunque esagerare ipotizzando un categorico rifiuto di Gesù di recarsi nei centri urbani. La vita di villaggio è tutt’altro che semplice. Frequentare i villaggi significa immergersi in una quotidianità composita e problematica. Nelle società di villaggio e nelle aree contadine le situazioni locali sono sempre determinate da relazioni di carattere familiare personale, economico, lavorativo, spesso cariche di tensioni e che incidono notevolmente sulle singole esistenze. È fuor di dubbio che una grande varietà di stimoli e condizionamenti esista in luoghi limitati e poco estesi quali sono i villaggi. La varietà dei sentimenti e dei legami non contrasta però col fatto che i beni materiali e gli stili di vita delle persone si somiglino e abbiano molti caratteri in comune.

Insomma per loro non c’è grande differenza tra città e campagna, la vita è difficile dappertutto.
Inoltre:

Potremmo quindi valutare meglio la sua [di Gesù]strategia prendendo in esame alcuni tratti generali del rapporto città-campagna. I centri urbani sono certamente poli sociali che governano, celebrano, legiferano, legittimano, e trattano la periferia in funzione dei propri interessi. Per di più, rivendicano profondità storiche che sono utilizzate per qualificare persone e gruppi in essi insediati. Agli occhi degli strati cittadini dominanti, i villaggi della campagna non sono portatori di identità e di ascendenze storiche riconoscibili. Sono solo fornitori e produttori subalterni. A tutta questa visione, Gesù sembra sfuggire e opporsi. Per lui, il luogo dell’identità giudaica è anzitutto il villaggio. Nei nuclei domestici rurali egli vedeva la base di tutta la struttura socio-culturale.

Destro/Pesce vedono il rapporto città-campagna solo in termini giuridici, economici, amministrativi, ma trascurano proprio il punto di vista da loro prescelto, quello mentale-culturale, quello antropologico: ovvero la campagna come il luogo obiettivamente socio-culturalmente arretrato rispettato alla città, che era proprio la prospettiva di d’Holbach.

Mi sembra questa una considerazione di tutta evidenza, non necessitante di particolari apparati argomentativi. Fino ai giorni nostri, infatti, il maggiore e talora unico discrimine nella formazione delle personalità e dei caratteri è stata la contrapposizione tra città e campagna, tra i fattori di socializzazione dell’urbanitas contrapposti a quelli della rusticitas. Prima della grande motorizzazione di massa e della straordinaria evoluzione del sistema dei trasporti (aerei soprattutto) e infine della grande esplosione dei mass media, che di fatto hanno eliminato la millenaria contrapposizione tra città e contado, tra centro e periferia, il nascere in campagna piuttosto che in città faceva la prima differenza nei processi di socializzazione. I sociologi per altro verso (Simmel) hanno anche delineato in qualche modo una sorta di “personalità urbana”, ossia quel tipo di personalità frutto di una socializzazione riccamente stimolata anche dal punto di vista sensoriale oltre che intellettuale dalla grande città, ove gli strumenti dell’alfabetizzazione (non solo scuole, ma grandi librerie e biblioteche) e della conseguente concettualizzazione favoriscono forme più avanzate di costruzione dell’io rispetto alla campagna e ai suoi ritmi lenti, abitudinari, uniformi. Nella grande città di Vienna diceva Musil – senza ovviamente alcun riferimento al nostro specifico discorso su Gesù – è facile scambiare un genio per un babbeo, mai un babbeo per un genio.
È proprio privilegiando questa prospettiva di socializzazione urbana che a nostro avviso l’ipotesi di d’Holbach è più di una capziosa illazione.

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