Lo so, ormai non è più una notizia, e altrove da queste parti se ne è già parlato in termini altrettanto lusinghieri. Eppure ritengo necessario riportare per un momento l’attenzione sul discorso politico più significativo delle ultime settimane, quello tenuto ieri da Pietro Ichino alla convention organizzata da Matteo Renzi per coronare la sua campagna per le primarie alla Leopolda. Perché forse c’è ancora qualcosa di un qualche interesse da dire.
A chi in questi mesi si arroga il diritto di “insegnare al mondo intero”, e anche a lui, “che cosa è di sinistra e che cosa no”, il giuslavorista, ex dirigente della CGIL e storicamente collocato nell’area del PCI e dei partiti nati da tale esperienza, ha ricordato con coraggio un dato su cui vale la pena non smettere di riflettere:
Se per sinistra si intende uguaglianza, lotta alle disuguaglianze, il bilancio della sinistra italiana è fortemente deficitario.
Certo, è deficitario perché tale è lo stato dell’eguale godimento dei diritti sociali, non solo dei diritti civili, in tutto il paese. E lungi dal tentare di annullare o moderare i gap, ampi settori della sinistra italiana si fanno alfieri di un mercato del lavoro duale, di uno stato sociale il cui accesso è subordinato all’anno di nascita, della distinzione di trattamento tra gli appartenenti a diverse realtà associative di rappresentanza del mondo del lavoro, di intere fette di mercato protette attraverso contributi a fondo perduto a imprese improduttive mascherati da contributi ai loro impiegati.
Da anni, Ichino ha il coraggio di svolgere una battaglia controcorrente, proponendo di ispirare una robusta campagna di riforme a esempi di mercato del lavoro e di accesso all’assistenza sociale in caso di difficoltà più efficienti, e ha elaborato una legislazione di massima che forse, almeno a una prima lettura, avrà il vizio di essere ancora troppo teorica e “dogmatica”, che sicuramente potrà essere adeguata in sede di applicazione, ma che quantomeno rappresenta un tentativo di ripensare i problemi al di fuori di schemi consolidati la cui efficacia è ora sotto gli occhi di tutti.
E nel fare ciò Ichino, come giustamente e con passione ha rivendicato ieri, non è catalogabile con disinvoltura nell’alveo dell'”estremismo liberista” (come mi era capitato di leggere tempo fa in un intervento che nell’ambito di questa categoria lo assimilava a Milton Friedman) si muove pienamente nell’alveo degli ideali e degli obiettivi tradizionali del pensiero e dell’azione di sinistra. Chè era schiettamente collocato a sinistra, e in quel campo, anche tra gli esponenti più solidamente ancorati alla tradizione marxista e alla vita di partito socialista e comunista, ha trovato i suoi interlocutori privilegiati quando ha avuto modo di fiorire e maturare proposte originali, quella corrente di riforma liberale molto spesso identificata, con qualche fretta e forzatura, nella “tradizione del socialismo liberale azionista” (insieme che in realtà unisce molte cose diverse).
Per essere più chiari, forse può esser bene fare il nome di qualche punto di riferimento a livello di individualità, come l’Ernesto Rossi che sul Mondo fustigava con eguale forza i “padroni del vapore” delle aziende monopoliste che succhiavano il sangue dei contribuenti, e i sindacati che sempre più spesso trovavano la soluzione per la tutela dei loro iscritti nell’avallo di questo travaso di risorse dai ceti produttivi ai parassiti che così potevano assumere anche senza produrre. Soprattutto, una figura che per la sensibilità sociale e per l’impegno politico e di elaborazione ideale più di altre dovrebbe essere il simbolo di un atteggiamento di pensiero che nei decenni della “repubblica dei partiti” è rimasto schiacciato tra i colossi del cattolicesimo organizzato e della tradizione socialista e comunista, ma che ora, alla fine di questa stagione, cerca disperatamente di trovare una nuova vitalità, è quella di Carlo Levi.
Già qualche settimana fa ho preso spunto dal suo romanzo del 1950 L’orologio, principale tentativo di scrivere un romanzo politico sull’alba della nostra repubblica, per mostrare come nella sua riflessione lo scrittore torinese avesse individuato un nodo centrale per l’Italia unita, una questione di cui il fascismo, al di là dei suoi aspetti di violenza terroristica, non era che una delle tante possibili facciate:
Il nostro [Stato] è una grande organizzazione caritatevole per coloro che ne fanno parte […]. Qualcuno deve pagare le spese della pubblica carità, le spese di Stato: e questi sono coloro che dello stato non fanno parte […].
Per Levi di fronte a istituzioni pubbliche che, in sostanza, si arrogavano il diritto di far vivere o morire interi settori della vita economica attraverso lo stanziamento o la razzia di risorse, l’unica possibilità di sopravvivenza era quella di aggregarsi in gruppi di pressione organizzati e condizionare, attraverso le proprie richieste, le scelte di uno stato che nei fatti diventava l’unica camera di incontro, scambio e compensazione tra i vari ambiti della società. L’allocazione delle risorse avveniva così soltanto sulla base della capacità dei gruppi professionali, degli organismi di rappresentanza sociale, persino delle singole famiglie, di farsi rappresentare nella trattativa nella “stanza dei bottoni” e di accaparrarsi tutele e finanziamenti dal potere pubblico, senza alcun riguardo alla qualità della propria attività o alla sua utilità per la vita collettiva. Così, nel sempre più inestricabile groviglio di provvedimenti difensivi, esclusivi, di elargizione, di protezione, di chiusura parziale o totale, spesso in conflitto tra loro sviluppati esclusivamente sulla base dei rapporti di forza del momento ma destinati a diventare essi stessi leva per la ridefinizione degli equilibri nel futuro, si aveva possibilità di farsi ascoltare, e quindi di partecipare alla redistribuzione di risorse che lo stato assorbiva, solo in quanto parte di un gruppo abbastanza potente da avere voce in capitolo, e per converso questa ragione era sufficiente per garantire tale partecipazione, indipendentemente dal proprio effettivo contributo. Chi si trovava fuori da tale gioco di rappresentanze, non solo avrebbe mantenuto i “privilegiati” che sopravvivevano su questo sistema, ma ne avrebbe anche pagato il costo dettato dall’inefficienza, senza possibilità di rivalsa.
Ecco, proprio a questa situazione dobbiamo rimediare, a una frattura tra chi riesce a ottenere dallo stato il necessario (e spesso non più di quello) a prescindere dal proprio contributo alla vita sociale, e chi deve sopportarne il peso mantenendo il meccanismo. La grande intuizione di Levi era quella di aver capito, già in un momento in cui questa situazione poteva superficialmente essere scambiata per una mera frattura di classe, che in realtà la questione era più complessa: oggi possiamo chiaramente sperimentare come i criteri che stabiliscano l’accesso ai diritti e alle garanzie sanciti dallo stato si fondino spesso su basi completamente diverse, che vanno dall’età all’appartenenza (in senso lato) corporativa.
La proposta programmatica lanciata da Ichino è quella che attualmente può meglio aprire al nostro paese la prospettiva di diventare, finalmente, una società aperta, una società di individui, in cui il diritto al lavoro e l’accesso all’assistenza e alla previdenza sono dettati appunto dal modo in cui la legge configura le specifiche situazioni individuali, e non sono subordinati all’età, alla provenienza familiare, all’appartenenza a particolari gruppi di lavoro o professionali, all’influenza della propria categoria nelle associazioni rappresentative delle parti sociali.
In questi giorni molti mi chiedono come sia possibile, per me, trovarmi in evidente sintonia con Nichi Vendola per quanto riguarda l’accesso alla pienezza dei diritti civili e di libertà da parte di categorie spesso discriminate, dagli omosessuali agli immigrati, e altrettanto in sintonia con Ichino per quanto riguarda il diritto del lavoro e la gestione dello stato sociale. Probabilmente la risposta è proprio in questo post: Vendola su alcuni piani, e Ichino su altri, si impegnano a liberare la nostra società dal peso opprimente di strutture sociali e di pensiero superate, e ad aprirla al futuro, a una dimensione in cui tutti i cittadini abbiano davvero un eguale trattamento in tutti gli aspetti del loro rapporto con la collettività. Questa è sinistra, e io sono con loro.