A mente freddaPresidenziali americane: valutazioni di prospettiva

Barack Obama è stato confermato alla guida degli Stati Uniti per il suo secondo mandato. Ormai lo sappiamo tutti. Ma al di là di questo fondamentale responso, queste elezioni presidenziali, accompa...

Barack Obama è stato confermato alla guida degli Stati Uniti per il suo secondo mandato. Ormai lo sappiamo tutti. Ma al di là di questo fondamentale responso, queste elezioni presidenziali, accompagnate come di consueto da una importante tornata di rinnovo dei due rami del Congresso e dalla selezione di alcuni governatori, possono essere analizzate anche in una prospettiva storica, per capire qualcosa di più delle evoluzioni di una macchina complessa come quella del sistema politico e istituzionale degli USA.

A prima vista, nulla sembra cambiato, e sembra di aver assistito a una tornata elettorale americana molto conservativa, con la riconferma di Barack Obama alla presidenza che però dovrà ancora vedersela con un Congresso che in uno dei suoi rami ha una maggioranza repubblicana. E in fondo anche le elezioni statali per i governatori sono andate secondo le previsioni della vigilia. Tuttavia, bisogna ricordare che le pratiche elettorali, a tutti i livelli e in tutti i sistemi politici, sono momenti culminanti e fondativi di processi che durano nel tempo, di “organismi” sociali che continuano a svilupparsi, e che trovano nel diretto confronto con il corpo elettorale una tappa fondamentale, che garantisce attraverso la strutturazione del consenso la necessaria linfa vitale a tutta la macchina, ma che è appunto una tappa, incomprensibile se non si sa cosa è successo prima e se non si dà per scontato che, dopo, il sistema politico continuerà a funzionare. Per questo, secondo me è opportuno inserire i dati elettorali in nostro possesso in contesti temporali più ampi, per giungere a considerazioni che interessano le evoluzioni intervenute nel breve, nel medio e nel lungo periodo. In questo modo, anche elezioni nel segno della continuità acquisiranno un significato più complesso.

Considerazioni di breve periodo. Rispetto al 2008, Obama vince, ma in modo meno netto. Anche confermandogli l’assegnazione della Florida, in cui risulta in leggero vantaggio mentre scrivo, rispetto alla competizione con McCain perde oltre trenta delegati, passando dai 365 di allora ai (probabili) 332. Questa discrepanza si deve a una redistribuzione dei delegati in favore di alcuni stati, soprattutto del Sud e dell’Old West, che hanno visto aumentare la loro popolazione e che si sono confermati tendenzialmente repubblicani, ma soprattutto alla perdita di due importanti swinging states, il North Carolina e l’Indiana.

Proprio la conquista di quest’ultimo stato sul filo di lana, quattro anni fa, aveva rappresentato il simbolo di una vittoria democratica andata persino oltre le aspettative, visto che l’Indiana non si muoveva dall’orientamento repubblicano dai tempi della schiacchiante vittoria di Johnson su Goldwater nel 1964. Il suo ritorno “all’ovile” sancisce sicuramente l’esaurimento di una spinta propulsiva della figura del presidente uscente, confermata anche dal voto popolare almeno percentualmente più contenuto. il 53% a 46% del 2008 diventa, per ora, un 50% a 49%, a conferma almeno sul piano del consenso sociale reale di un testa-a-testa che il sistema elettorale teso a valorizzare il ruolo degli stati ha certamente ridimensionato.

Quattro anni fa, è vero, al dinamismo obamiano si contrapponeva un Partito repubblicano che, ai suoi vertici nazionali, era a pezzi, preso com’era da una “fuga” dal crollo finale di popolarità dell’amministrazione Bush, destinata a scontare a causa di insuccessi di cui non era l’unica responsabile anche le complicazioni generate da scelte affrettate in politica estera che, nel momento in cui erano state portate avanti, avevano raccolto un consenso piuttosto ampio nell’opinione pubblica. La candidatura di conservatore atipico come John McCain, rimasto spesso ai margini della “stanza dei bottoni” del partito, si è rivelata la classica scelta di transizione da cui era inutile aspettarsi molto, e che avrebbe dovuto rappresentare solo un primo tassello per ritirarsi in buon ordine e ricostruire gli orientamenti del partito dalle fondamenta.

Si potrebbe quindi pensare che lo “sfondamento” del 2008 fosse determinato da una mancanza di avversari che oggi si è risolta. In realtà, quantomeno sulla base delle impressioni che ho potuto farmi nel corso dell’ultimo anno che ho passato negli Stati Uniti, questo non è del tutto vero. Certo, a differenza di quanto accade in Europa, in America è sempre difficile capitalizzare quanto di buono si è riusciti a ottenere in una sconfitta per ripartire, vista l’assenza di un ruolo strutturato all’opposizione istituzionale negli USA. Ma per il Partito repubbicano del quadriennio successivo al 2008 la risalita dagli inferi è stata ancora più dura del previsto. Nelle manovre in vista della scorsa campagna elettorale, era sembrata emergere come sicura aggregatrice del consenso repubblicano l’aspirante vice di McCain, Sarah Palin, scelta appositamente per equilibrare la posizione un po’ eccentrica di McCain rispetto al conservatorismo tradizionale. L’allora governatrice dell’Alaska si è mostrata ambiziosa nell’usare la candidatura per una personale “scalata” negli equilibri del partito. però, ma si è rivelata dopo qualche iniziale successo sostanzialmente incapace di incarnare la complessa anima repubblicana col suo tentativo di battere in modo quasi esclusivo sul conservatorismo radicale e antifiscale.

Il Grand Old Party è così arrivato alle primarie frammentato non solo nella forza personale dei candidati, ma anche nella differenza nell’idea di partito che essi esprimevano. In questo senso si possono comprendere, ad esempio i risultati relativamente buoni del libertarian Ron Paul, l’unico candidato repubblicano che ho potuto ascoltare dal vivo, perché sostanzialmente l’unico che guardava con qualche interesse alle città universitarie del nord-est, ormai considerate tradizionalmente terra di caccia proibita per i repubblicani, e che si pone su posizioni antitetiche al classico atteggiamento pro-business e spesso apertamente confessionale del tradizionale politico repubblicano di successo. La conclusione di tutto questo, comunque, è stata la selezione di Mitt Romney essenzialmente per esclusione, la percezione che Obama sia riuscito a salvare la pelle essenzialmente per mancanza di serie alternative, e di conseguenza l’idea che lo scarto assai risicato della vittoria offra un presidente ben più debole di quanto ci si possa oggi immaginare. La strategia programmatica di Obama, con l’approvazione immediata della riforma sanitaria, lo scoglio più duro della sua amministrazione, e la speranza che si arrivasse alle elezioni in un clima di ripresa ormai consolidata capace di far accettare le nuove misure sociali come strategiche per restaurare la stabilità sociale del ceto medio, è almeno in parte fallita. Se i repubblicani, questa volta, sapranno dare continuità alla ricostruzione della loro identità fin dalle elezioni di medio termine, nel 2016 potranno ambire a un vittoria significativa, e se nel frattempo non ci saranno stati cambiamenti importanti nelle prospettive economiche le conquiste democratiche sulla sanità non saranno ancora al sicuro, così come non saranno al sicuro, e probabilmente sono già in forse visto il Congresso parzialmente ostile, le misure che Obama intende prendere per dare un nuovo assetto al mondo dell’istruzione e dell’università, ora sempre più costoso e meno accessibile.

Considerazioni di medio periodo. Si parla spesso, e per ovvie ragioni, degli swinging states, ma anche la struttura degli stati più stabili non ha rappresentato nel corso del tempo un dato di fatto immutabile. Le ragioni di certe scelte e di certi orientamenti più duraturi, però va ricercata nella natura dei partiti americani e nella loro capacità di creare legami stabili con gruppi sociali e di pressione, facendosi rappresentanti di istanze precise.

Nel corso del Ventesimo secolo, in particolare, il Partito democratico è stato protagonista di una profonda ridefinizione dei propri connotati. Sviluppatosi fin dagli anni dell’elaborazione costituzionale di fine Settecento come la forza politica più attenta alle esigenze di autonomia e di libertà delle comunità locali, degli individui, dei singoli gruppi sociali e degli stati dall’invadenza del governo federale, nel corso del tempo era diventato il punto di riferimento per settori della società statunitense assai diversificati, mantenendo anche ben oltre la Guerra civile del 1861-65 il ruolo di riferimento tanto dei promotori dei diritti civili, sociali ed economici e dell’eguale accesso alle istituzioni, al lavoro e al mercato del Nord e dell’Ovest, quanto dei suprematisti bianchi del Sud, capaci attraverso le loro azioni di controllo sociale anche violento di trasformare stati come la Georgia in autentiche cittadelle in cui il Partito democratico era una sorta di partito unico.

Il lungo e laborioso processo di ridefinizione della cultura politica democratica secondo decisi accenti progressisti, iniziato ai primi del Novecento e culminato con la lunga esperienza del New Deal rooseveltiano e (seppur con accenti diversi) col suo successore Truman, portò anche nel corso del tempo a una redistribuzione del voto popolare, con un sempre più frequente “sfondamento” verso il Nord, dalle piazzeforti delle grandi metropoli di New York e del Massachusetts fino agli stati meno urbanizzati del New England, tradizionali rifugi dell’identità yankee ma ormai teste di ponte dell’America globalizzata grazie alle loro università di livello mondiale, e con una progressiva dispersione del quasi-monopolio assicurato al Sud, tornato a guardare democratico solo per la breve stagione di successo del georgiano Jimmy Carter dopo l’impegno del partito dell’asinello nella promozione dei diritti civili negli anni Sessanta. Il risultato finale è una geografia elettorale in cui i democratici hanno nel nord e nel Midwest industriale e sindacalizzato, oltreché nella costa pacifica dominata dalla California liberal, importanti punti di forza, con i repubblicani che sono ormai stabilmente il riferimento partitico di tutti gli aspetti del pensiero conservatore, e che si sono fatti definitivamente carico delle “grandi speranze bianche” del Sud, tanto quanto della diffidenza provinciale verso il progresso sociale e dei diritti propria delle grandi e scarsamente popolate campagne dell’interno.

Dal nostro punto di vista, comunque, anche il consolidamento di questa geografia elettorale nel 2012 può essere importante, soprattutto se si tiene conto del fatto che di solito le crisi economiche come quella che stiamo vivendo hanno rappresentato i detonatori di nuovi scossoni radicali alla distribuzione del consenso tra i partiti: come ho detto la crisi del 1929-32,con l’elezione di Roosevelt e l’affermazione di un nuovo modo di concepire il ruolo del governo nella vita economica e nel sostegno al tenore di vita della popolazione, ha rappresentato l’inizio di un nuovo ruolo per i due partiti “storici”, ma scendendo ancora più indietro nel tempo anche la prima “grande depressione” di fine Ottocento è stata tra i fattori scatenanti della prima stagione progressista che tanto avrebbe influito sul modo d’essere democratico. La stabilità attuale da un lato porta a pensare che ormai il sistema dei partiti americani si sia molto ben strutturato, con una grande capacità da entrambe le parti di mobilitare al massimo aderenti e interlocutori sul territorio; dall’altro, però, fa capire come una serie di problemi che hanno caratterizzato le precedenti contrapposizioni a livello locale, come la questione razziale, non siano ancora affatto superate, e rappresentino tuttora elementi vitali nella determinazione delle priorità degli elettori.

Considerazioni di lungo periodo. Il parco dei potenziali candidati alla presidenza sembra continuare ad ampliarsi: nel 2008, un nero, sposato con una discendente di schiavi, è entrato alla Casa Bianca, mentre per la prima volta una donna, la sua rivale alle primarie, era stata considerata pienamente eleggibile; oggi, lo sconfitto ha pienamente superato il possibile handicap della sua fede religiosa mormone, e anche tra i repubblicani si è fatto definitivamente strada, con buone possibilità di consolidare la sua posizione nel futuro, un cattolico, Paul Ryan. Tuttavia, è bene guardare a questi elementi con la necessaria cautela.

Questi temi sono negli USA assai più rilevanti di quanto si può pensare qui in Europa, perché toccano valori ed equilibri pre-politici, quasi antropologici. Negli Stati Uniti, i gruppi sociali e le comunità hanno un ruolo attivo di orientamento della politica, e le istituzioni non possono che muoversi riconoscendone i rapporti di forza. In particolare, sul piano culturale, il melting pot (che più che alla fusione ha portato all’incontro e alla coesistenza pacifica tra diversi gruppi etnici e nazionali) è stato accolto e promosso nella misura in cui si è identificato con un processo presieduto e controllato dalla grande comunità White Anglo-Saxon Protestant, capace di rivendicare con convinzione di fronte alle altre il ruolo di fondatrice dell’Unione e di depositaria del termini del “sacro esperimento” che gli USA hanno rappresentato nell’immaginario collettivo.

Anche nei confronti degli altri gruppi, la predominanza dei discendenti (culturalmente) diretti dei Padri fondatori nella vita istituzionale e nel cerimoniale nazionale rappresentava una sorta di scelta di equilibrio tra le tante alternative possibili, ciascuna delle quali sarebbe stata percepita come un indebito potenziamento di una parte rispetto all’intera comunità. Per questa ragione il predominio WASP nella vita politica è continuato anche a dispetto di modifiche sempre più profonde degli equilibri demografici, e tuttora, nonostante i segnali che ho messo in evidenza all’inizio, è tutt’altro che messo in discussione in modo definitivo. L’afro-americano giunto alla presidenza ha costruito gran parte della sua carriera politica prendendo le distanze dai, e spesso opponendosi apertamente ai, tradizionali leader neri, e si è presentato come un riferimento politico assai più “neutro” dei membri del Congresso che trovano in specifiche comunità etniche il loro elettorato privilegiato. Allo stesso modo, Romney si è ben guardato, nella costruzione del suo profilo politico, dal proporsi come referente diretto della comunità e dei grandi comitati d’affari mormoni, e pur mantenendo rapporti saldi con lo Utah, lo stato mormone per eccellenza, si è provato alla politica di alto livello come governatore del Massachusetts, stato atipico per i repubblicani, colto, progressista, con una forte e radicata presenza cattolica italiana e irlandese, e soprattutto decisamente secolarizzato rispetto alla media americana.

In conclusione, per quanto riguarda i candidati alla presidenza, la necessità di diventare riferimenti credibili ed eleggibili per il tradizionale blocco di potere bianco, protestante, e tendenzialmente conservatore per quanto riguarda i ruoli di genere e la vita sessuale resta fondamentale. Anche al Congresso, dove si raccoglie una classe selezionata della politica nazionale americana, l’incremento ormai continuo da vent’anni di eletti appartenenti a minoranze (neri, ma soprattutto latino-americani, ormai gruppo etnico quantitativamente più importante di quello afro-americano in molte realtà strategiche) viene assorbito nell’ambito di orientamenti politici tradizionali, come del resto chiarisce il fatto che queste presenze sono piuttosto numerose anche nella pattuglia repubblicana, tradizionalmente più legata all’elettorato di massa bianco e protestante.

Il vero riorientamento con cui bisognerà fare i conti, più ancora che su base etnica, sembra riassumersi sulla base della provenienza e degli interessi preminenti dei membri del Congresso: personale di origjne latino-americana e personale, spesso accesamente conservatore, proveniente dagli stati delle Grandi Pianure occidentali, ha in comune un atteggiamento più attento alla vita interna degli USA e ai rapporti intra-americani, rispetto alla tradizionale classe dirigente educata nelle università cosmopolite dell’Ivy League e attenta ai tradizionali, specialissimi legami culturali tra la “giovane” America e la vecchia “madre” Europa. Si tratta di una ricollocazione di lungo periodo che nel corso dei decenni sembra destinata a consolidarsi, e con cui tutti dovremo fare i conti.

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