Palazzo Madama, diario di bordoPrima puntata: la diffamazione

Impressioni su quel che accade a Palazzo. Da uno che faceva tutt’altro lavoro fino al 2008,che c’è finito dentro senza averlo chiesto e senza averlo cercato, ma che visto c’è cerca di non buttare i...

Impressioni su quel che accade a Palazzo. Da uno che faceva tutt’altro lavoro fino al 2008,che c’è finito dentro senza averlo chiesto e senza averlo cercato, ma che visto c’è cerca di non buttare i non pochi soldi che riceve dal contribuente.

Il Palazzo è il Palamadama, dove un tempo c’erano le guardie (la polizia dello stato pontificio,la madama, appunto), e oggi invece i senatori della Repubblica. Oggi si discute di nuovo il disegno di legge sulla diffamazione, palleggiato indegnamente fra aula e commissione giustizia un numero imprecisato di volte (stamattina, per dire, si discuteva di un emendamento giunto alla settima riformulazione, e naturalmente non si è deciso neppure questa volta). Con tanto di drammatiche dimissioni in aula di uno dei due relatori (dimissioni da relatore, si capisce, qui non si dimette nessuno, e la parola dimissioni suscita reazioni pari a quelle di Cetto La Qualunque alle parole “scontrino fiscale”).

Considerazioni in ordine sparso.

Uno. È una legge spudoratamente ad personam, come quelle ad Silvium di infausta memoria. Io che ho abbandonato il Pdl per non aver votato il famigerato “processo breve” salvaSilvio, considero le leggi ad personam sempre sbagliate, che siano per Berlusconi, per Sallusti, o per la buon’anima di Eluana Englaro. Pregate per noi. Fino ad oggi nessuno si era preso la briga
di cambiare una legge vecchia, che non tutela né i cittadini perbene né i giornalisti seri – ne esistono ancora, degli uni e degli altri. Oggi invece “bisogna” fare subito una nuova legge, perché applicando quella vecchia un noto giornalista – Alessandro Sallusti – colpevole di diffamazione, rischia di andare al gabbio.

Due. Non sono un giurista, e non faccio parte della Commissione Giustizia del Senato. Sul piano tecnico alcune cose mi sfuggono. Ma da questo surreale zigzag fra l’aula e la commissione che dura da tre settimane il provvedimento che sta uscendo è tecnicamente un enorme pasticcio. E anche i commenti, politici e non, sono diametralmente opposti: un “hard discount della diffamazione” secondo alcuni politici, un intollerabile bavaglio secondo i giornalisti. Già che ci sono vorrei rassicurare i secondi: ogni ulteriore riformulazione del provvedimento è sempre ulteriormente ammorbidente.

Tre. Se siamo arrivati a questo punto è per salvare un colpevole. Uno specifico, con nome e cognome. Del quale possiamo avere qualunque opinione come giornalista (la mia è pessima), ma è stato giudicato colpevole dalla magistratura, non dal parlamento. Questa non è solo una legge ad personam, è un tentativo del potere legislativo di sovrapporsi a un altro potere dello stato.

Quattro. Noi prendiamo uno stipendio dai contribuenti per fare l’interesse di tutti i cittadini, non di uno singolo, tanto meno se colpevole, per criticabili che siano la legge e la sentenza che lo condannano. Né le varie lobby che di volta in volta premono per questo o quel provvedimento. Noi siamo pagati dai cittadini. Chissà, magari qualcuno è pagato anche dalle lobby, ma questo è un altro discorso.

Cinque. Perché lavoriamo (scusate il termine) su questo provvedimento come se camminassimo sui carboni ardenti? Perché siamo così timorosi di quello che ne dirà la stampa? Semplice: perché – collettivamente, come “classe politica”, ancora una volta scusate il termine – abbiamo il sederino sporco. Nelle file dei politici c’è una tale percentuale di delinquenti abituali che non possiamo permetterci di intervenire sulla professione giornalistica senza essere accusabili di cercare l’insabbiamento facile e la persecuzione dei
giornalisti seri, di tutti, non di Sallusti. Il che purtroppo è probabilmente vero.

Sei. Siamo talmente poco credibili e poco stimati, e anche a ragione, che chiunque ci contraddica, anche a torto, sulla portata di un provvedimento in discussione è più credibile di noi. Nessuno dovrebbe approfittarne, come invece accade ormai sistematicamente, e tantomeno i giornalisti. Ma ormai la situazione è irrimediabile, se non andando tutti o quasi a casa.
Quanti più possibile, quanto prima possibile. Attenzione però: se i cittadini voteranno anche la prossima volta senza accendere il cervello, non è detto che non si cada dalla padella nella brace.

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