A mente freddaPrimarie 2: un risultato prevedibile, con risvolti meno ovvi

Adesso che l'organizzazione delle primarie sembra sbilanciarsi con risultati quantomeno ufficiosi, provo a proporre qualche riflessione sparsa su un voto sicuramente importante per gli equilibri po...

Adesso che l’organizzazione delle primarie sembra sbilanciarsi con risultati quantomeno ufficiosi, provo a proporre qualche riflessione sparsa su un voto sicuramente importante per gli equilibri politici nazionali in generale.

1. A dispetto del vanto menato da tutti i candidati sul grande successo di partecipazione, si tratta delle consultazioni nazionali d’area con la partecipazione più bassa (forse il valore numerico assoluto sarà maggiore dell’elezione del segretario PD del 2009, ma in questo caso erano coinvolti anche altri soggetti, soprattutto SEL, che ha portato alcune centinaia di migliaia di elettori). In parte questo risultato si potrà imputare alla disaffezione degli italiani per i canali di rappresentanza politica più classici, e quindi si dovrà riconoscere che da questo punto di vista il coinvolgimento delle primarie non rappresenta la panacea di tutti i mali. Ma non si può cancellare la decisione dei vertici del Partito democratico di selezionare il proprio elettorato (mentre in una democrazia dovrebbero essere gli elettori quelli che stanno dalla parte della domanda) per garantire un risultato elettorale che non sconvolgesse gli equilibri interni. Questa scelta si è tradotta forse non nel fallimento, ma quantomeno nella netta limitazione dell’effetto fondamentale delle primarie nella competizione elettorale complessiva, quello di coinvolgere settori dell’elettorato e dell’opinione pubblica più ampi possibile. Nel lungo periodo, il PD portebbe finire per pagare questo comportamento discutibile più di quanto crede sul piano elettorale, precludendosi le possibilità concrete di uscire stabilmente dai propri tradizionali “recinti” di rappresentanza. E la cosa peggiore è che quasi nessuno dei responsabili sembra essere consapevole, visto che nei rumors della vigilia si sperava che il controllo della partecipazione facesse crollare l’affluenza verso i due milioni: se l’assoluta ignoranza con cui persone dotate di questo genere di responsabilità di gestione di un partito si rapporta a un tema delicato come quello delle primarie è lo specchio delle capacità generali di analisi politica della dirigenza del PD, difficilmente il partito potrà sopravvivere di fronte ad avversari veri.

2. Matteo Renzi, alla vigilia, era il candidato ritenuto più svantaggiato dal severo controllo di registrazione e dalla macchinosità delle procedure imposta dagli organizzatori. Riesce comunque a portare a casa un 35% abbondante, sfondando il milione di voti agilmente (almeno secondo i dati provvisori). Gli aspetti più significativi di questo risultato vanno però oltre un dato numerico che, in queste proporzioni, era nelle previsioni. Il supporto di Renzi si disloca infatti soprattutto in aree a forte radicamento “di sinistra”, ed è il frutto solo in quota minoritaria dell’affluenza alle urne di elettori estranei o addirittura ostili. Chi ha seguito l’evoluzione politica di Renzi abbastanza a lungo da capire che la sua patina mediatica è solo la superficie di un lavoro più profondo, sa che questa impostazione nasce da lontano. Attorno a lui si sono infatti raccolti diversi amministratori locali certo in Toscana (dove il sindaco di Firenze ha una presenza sociale radicata e rapporti con le comunità maturati nel tempo secondo uno stile politico “classico” per le zone ad elevata politicizzazione), ma anche in altre zone del centro e in Emilia. In generale, si tratta di un gruppo dirigente in nuce che non si sente pienamente rappresentato dai vertici attuali del partito per motivi anagrafici, di provenienza sociale e geografica o ideale, e che trova nel pragmatismo e nell’istanza di svecchiamento renziana uno strumnto per farsi sentire. L’elemento importante di questo voto è il fatto che questa rete di rapporti che Renzi ha maturato sul territorio si traduce in consenso popolare da parte degli elettori di questo corpo di amministratori. Questo genere di supporto appare in primo luogo ampiamente disciplinabile in una “corrente” ben identificabile, capace di rappresentare oltre un terzo della base del PD e che quindi non potrà essere sottovalutata nella ristrutturazione dei vertici del partito prima e dopo le elezioni. La provenienza di questo voto, inoltre, pone quindi Renzi ben all’interno del perimetro del centro-sinistra, e questo nonostante la quasi totale assenza di suoi sostenitori negli organigrammi del partito e nel gruppo parlamentare. L’immagine che passa è quella di un soggetto politico che è stato messo non solo da una grossa fetta di suoi elettori, ma anche da numerosi propri rappresentanti istituzionali eletti e legittimati a dispetto della volontà della classe dirigente, di fronte a una crisi di rappresentatività che sarà necessario superare al più presto.

3. Pierluigi Bersani vince questo primo turno e vincerà il ballottaggio. Ma proprio le caratteristiche del consenso a Renzi dovrebbero far riflettere sia lui, sia soprattutto la “macchina” di gruppi organizzati e di orientamenti che si è raccolta attorno a lui in questi tre anni di segreteria, orientandone la politica assai più di quanto era lecito pensare a fine 2009. Queste settimane di campagna per le primarie sono state infatti caratterizzate da una evidente involuzione del lessico politico dei suoi sostenitori a tutti i livelli. Man mano che Renzi si dimostrava, nelle rilevazioni, qualcosa di più che un fuoco di paglia, il gioco si faceva più duro. Sfruttando una presunta propensione all’insulto del competitore (non comprovata, mai, da nessun riferimento diretto alle parole di Renzi, che si è limitato a fare constatazioni di fatto che anche una buona metà dei bersaniani pensa, dal fatto che la leadership del segretario sia debole al fatto che D’Alema abbia perso sostanzialmente tutte le sue battaglie politiche), si è giustificato un linguaggio di sempre più decisa delegittimazione. Se all’inizio, per molti militanti e dirigenti locali, il sostegno a Renzi “era comprensibile per diverse ragioni, ma non del tutto convincente”, a stretto giro il sindaco di Firenze diventava “legato ai poteri forti”, un “erede di Berlusconi”, un corpo estraneo, e la vittoria nei suoi confronti, con qualunque risultato, sarebbe servita soltanto per “dargli una lezione” e per “metterlo a tacere”, con l’evidente idea che qualunque consenso la sua figura avrebbe maturato sarebbe stato il risultato di un voto non riconducibile alla “legittimità” di coalizione. Tutto questo si è dimostrato, come ho detto, del tutto falso, visto che i risultati hanno dimostrato in primo luogo una decisa povertà di analisi della situazione da parte dei numerosi sostenitori della segreteria che sostenevano questo tipo di posizioni. Ma ha comunque fatto danni. Una simile campagna, infatti, ha fatto rientrare in circolo tra gli elettori del PD, ovvero di quella che dovrebbe essere la forza di gran lunga più responsabile del panorama politico italiano e la pietra angolare per garantire il buon funzionamento di qualunque compagine governativa l’anno prossimo, di concetti come quello di “complotto”, di “poteri forti”, di “infiltrati”, al punto che di fronte alla benedizione di persone che per la prima volta si andavano a iscrivere per votare alcuni volontari dichiaravano di sentire “puzza di fascisti”, identificando esplicitamente come tale chiunque non fosse mai entrato prima in una sezione del PD. A questa sindrome da cittadella assediata che deve conservare la propria “purezza di sangue” si sono accompagnate derive antieuropee e anti-montiane, che inneggiano alla dispersione del patrimonio di credibilità acquisito in quest’anno e al ritorno a una politica di spesa pubblica incontrollata per risolvere i problemi immediati senza alcuna attenzione a quelli strutturali. Si dirà, naturalmente, che Bersani potrà non tenere conto di queste degenerazioni (a cui ha comunque colpevolmente dato troppo spago, facendo troppo spesso propri alcuni riferimenti di questo tipo alle banche e ai “poteri forti” europei) una volta conseguita la piena legittimazione della vittoria, e potrà proseguire con la propria politica accorta e responsabile. Ma dopo aver scoperchiato questo vaso di Pandora non è facile richiuderlo, soprattutto da parte di un leader che si è dimostrato troppo dipendente dal consenso dei titolari di golden shares della sua segreteria per restare in sella.

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