Bagno di democrazia, successo politico, grande campagna di comunicazione. Ci sono tanti modi corretti per leggere le primarie del centro sinistra. Così com’è giusto rendere merito a Pierluigi Bersani e alla sua capacità politica per averle vinte, volute e cavalcate rafforzando la sua leadership che si era inevitabilmente logorata nell’autoscontro impazzito della crisi della politica. È certo che l’ottimo risultato di Matteo Renzi rappresenta un cambiamento epocale, che vale per tutto il sistema e che investe tre aspetti fondamentali del modo di fare politica in Italia. Il primo è che il segretario del Pd (erede del Partito Comunista) è sfidabile, e quindi la leadership dello stesso partito è contendibile al di fuori dell’apparato.
Il secondo dato è che ora il Pdl, nonostante i rigurgiti senili e disperati del suo ex Padre Padrone, è costretto più che mai a fare altrettanto, pena la perdita della speranza di rappresentare il Paese. Il terzo e a mio parere cruciale elemento è che la questione Settentrionale è finalmente entrata nel Dna del centro sinistra. Il successo di Renzi nelle regioni rosse e nelle regioni del Nord vuol dire che l’elettorato di centro sinistra delle zone più dinamiche e produttive del paese ha sonoramente battuto un colpo. E ci ha fatto sapere che si è stufato del tradizionale sistema partito-cooperative-sindacato, che pure per decenni ha garantito in quelle ricche regioni crescita economica e coesione sociale. Una forma di governo che mostra la corda soprattutto nei territori e nelle componenti sociali che più essendo in competizione con il mondo globalizzato (e non garantito) sono anche maggiormente coinvolte dalla crisi economica, e più di altri soffrono un deficit di rappresentanza politica. Il messaggio dei voti per Renzi è che bisogna cambiare una classe politica inefficiente e autoreferenziale. E l’unico modo per farlo è di aprire e di contendere le leadership. Un messaggio chiaro. Anche per il nordico, pragmatico e competente Pierluigi Bersani.