Tramonti sul nord estQui, nel Nord-Est, paron e operai si affrontano a quattr’occhi. Non si va in piazza

“Contessa Miseria” è stato il soprannome che mi ha dato l’uomo in divisa che per un periodo è stato il passeggero del lato destro del mio letto. Ci siamo conosciuti quando io stringevo sampietrini...

“Contessa Miseria” è stato il soprannome che mi ha dato l’uomo in divisa che per un periodo è stato il passeggero del lato destro del mio letto.

Ci siamo conosciuti quando io stringevo sampietrini dentro al pugno sinistro chiuso ribellandomi al Sistema (cit) e lui per voto di obbedienza impugnava un manganello nella sua mano destra.

Ci siamo frequentati per un po’, dopo eravamo troppo diversi e troppo uguali, io son finita in Russia e lui è diventato capo della Digos di una delle 7 province venete. Ma con lui mi sono fatta infinite discussioni. Mi è venuto in mente ieri notte leggendo delle manifestazioni di piazza.

Qui in Serenissima, a parte Marghera e in qualche grande realtà industriale, sciopero tra gli operai è una parola sconosciuta. Ieri infatti in piazza, ad imbrattare banche a Vicenza o a mostrare il dito medio ai poliziotti non sono andati gli operai ci sono andati gli studenti, e mi gioco qualcosa che non sono figli di operai.

Qui in Serenissima nasci con due cose, oltre ai cromosomi, nel Dna: Lavoro e schei. Lavoro come dovere e non come diritto e schei come logica conseguenza. Qui in Serenissima tre quarti degli imprenditori sono stati operai e dopo si sono aperti la loro impresa.

Forse per dimensioni (le realtà che conosco io non superano i 10 dipendenti) forse per quel mito della “grande fameja” l’operaio nei confronti del paron avrà si tirato giù tutti i santi venerabili del calendario ma non ha mai avuto nulla da recriminare. E se fino a dieci anni fa ogni operaio veneto aveva la casa di proprietà, molto era dovuto al paron.

Quando un operaio entra in un’azienda ne diventa parte, e non solo perché sotto sotto ha qualche vincolo di sangue. Per il paron è un nuovo figlio. E quando chiude un’azienda, per un operaio non è solo la perdita di un posto di lavoro, è perdere un pezzo di storia personale, di identità, di radici.

Qui in Serenissima io la classe operaia, studiata nei libri di storia, non l’ho mai incontrata. Qui in Serenissima di solito el paron chiama gli operai i tosi. Io ho visto paroni che non hanno pagato le tasse ma hanno pagato i dipendenti, e ho visto operai che a parole andrebbero a denunciare el paron evasore, ma che se ne andavano a prendere la parte dello stipendio in nero senza fare cheo.


Ieri a Vicenza i protestanti hanno imbrattato banche e a Padova hanno fieramente mostrato il dito medio ai poliziotti, ma non erano operai. Forse non erano neanche lavoranti e lavoratori, quelli in piazza, perché 8 ore de lavoro ze 8 ore de schei e l’operaio veneto sa benissimo che con la protesta e le parole non si risolve niente. La classe operaia in Veneto non esiste e su questo aveva ragione chi mi chiamava Contessa Miseria.

Non ci sono diritti da rivendicare. Il diritto di successione è garantito: se il tornio era del padre, 99 su 100 se il figlio vuole diventa suo. Il diritto di proprietà regna: questo ze el me banchetto, questa ze a me machina, questo ze el me armadietto. Il diritto alla sicurezza c’è per il fatto che se sei una realtà di 1000 dipendenti e te ne resta a casa uno in infortunio non te ne accorgi, ma quando sei in tre cani e due gatti in produzione e te ne sta a casa uno è come ne stessero a casa 20.

Io di grandi conflitti tra operai e paroni non ne conosco. Conosco tante bestemmie, quelle si. Conosco paroni che “trattano male” gli operai ma non conosco realtà di scontro. Attriti, come in tutte le relazioni umane, ma non scontri. Forse per le dimensioni nelle pmi i sindacati non entrano. Gli operai dai sindacati ci vanno a farsi l’unico, il calcolo della pensione e nel caso abbiano la coscienza sporca ci vanno in cerca di difesa.

Per il resto col paron le cose si affrontano a 4 occhi. E si risolvono. Magari battendo i pugni sul tavolo, predicando e sigando ma una soluzione si trova, per quell’umana necessità di bisogno l’uno dell’altro, per quel senso di “grande fameja”.

È difficile da spiegare se non si respira quest’aria, se non si conoscono gli uni e gli altri. Fatto sta che qui la classe operaia non esiste. Non serve. Nessun diritto da rivendicare. Degli operai delle pmi nessuno dà importanza allo sciopero, a finire nei giornali o meglio in televisione. Non c’è niente da protestare. E non perché son cattolici.

Quelli che ieri sono andati a protestare del lavoro non ne sanno nulla. O se ne hanno un’idea è di un lavoro fisso, senza tante responsabilità, senza tanti pensieri, con stipendio assicurato e non trampolino di lancio per una loro attività. In Serenissima invece tanti operai sono diventati imprenditori e a loro volta clienti/fornitori dell’azienda in cui sono nati e cresciuti professionalmente: si son presi le loro rivincite, han fatto pagare qualche sgarro o torto ma mai con bandiere politiche o slogan di rivoluzione.

In Serenissima tanti operai han fatto la fortuna dei paroni e tanti paroni han fatto la fortuna degli operai. E adesso che annaspano entrambi non si voltano le spalle. Se c’è una consegna da rispettare lavorano ancora il sabato e la domenica, quelli fortunati. Se c’è da aspettare qualche giorno, che sia chiaro qualche giorno, lo stipendio stringono i denti fino alle gengive ma non occupano gli stabilimenti o salgono sui tetti delle fabbriche.

E se le cose non vanno bene a livello globale e il sistema è fallito loro si aggrappano al Leone di San Marco, al mito del federalismo e continuano a lavorare. Non scendono in piazza a protestare. Perché la classe operaia vera protesta lavorando. Perché oggi il domani è il lavoro.