Sulla riforma della legge elettorale il discorso si è avvitato da mesi: un mio commento di fine marzo, che ho riletto ora, conteneva già alcuni punti che adesso sarebbero ancora pienamente attuali, per offrire una spiegazione di quanto succede. In poche parole, scontiamo le difficoltà create nella strettoia le difficoltà a costruire una maggioranza non composita su una soluzione che privilegi in via definitiva il proporzionale o il maggioritario, senza ricorrere a ibridi gravati da evidenti errori tecnici, e la necessità di un’intera classe politica di garantirsi un meccanismo di voto che predermini nel modo più ampio possibile eletti e rapporti di forza, in un evidente e diffuso timore di confrontarsi con il corpo elettorale.
Per queste ragioni, ad esempio, l’attuale dirigenza del Partito democratico non può contrapporre alla proposta avanzata dalle forze di centro e di destra allo scopo di ridimensionare la probabile vittoria della coalizione di sinistra una prospettiva chiara. Da un lato un maggioritario vero non solo non avrebbe i numeri in Parlamento, ma soprattuto renderebbe fuori luogo l’intreccio di alleanze e di intese più o meno esplicite tra segreterie di cui Bersani è il principale garante, e che si sono costituite in un contesto caratterizzato dallo scrutinio di lista, al di là del quale i limiti di comprensione delle dinamiche di consenso del segretario del PD si sono mostrati evidenti. Un sistema proporzionale meno spurio dell’attuale e semplicemente “corretto”, d’altro canto, renderebbe necessario un governo di coalizione, come sarebbe anche giusto se si sceglie di privilegiare la rappresentatività delle forze in campo e se nessuna ottiene una maggioranza significativamente superiore alle altre; ma questo è inaccettabile per un partito, il PD, che nasce per superare i criteri novecenteschi dell’integrazione di massa, e che con l’ascesa alla segreteria di una maggioranza contraria a questi sviluppi e legata a modelli di maggior “purezza” socialdemocratica ha visto bloccare il proprio sviluppo in tal senso, ma non ha sperimentato l’unica alternativa percorribile del ritorno alle due formazioni socialista e cattolico-democratica, essenzialmente per l’inerzia di un segretario che, anche sul piano interno, non è stato altro che il sensale dei rapporti di forza tra i gruppi organizzati. La prospettiva che si riesce a proporre come contraltare al premio di maggioranza praticamente ininfluente previsto per il 42,5% (???), insomma, non può uscire dal circolo vizioso che per sostituire l’ormai delegittimato porcellum dà comunque per scontati i suoi elementi più disfunzionali, sostanzialmente concentrandosi sull’entità del premio di maggioranza. Così Bersani oggi:
Tutti devono capire che ci vuole, non per noi ma per il Paese, un premio decoroso per chi arriva primo. Partito o coalizione che sia. Perché la Consulta ha eccepito che non può andar bene che chi vince con il 25% dei voti poi abbia più del doppio dei seggi e su questo non si discute. Ma non ha mica detto che non possa esserci un premio di governabilità. […] Io voglio solo che una coalizione col 35% abbia un premio che garantisca al Paese un presidio di governabilità.
Tra le voci attualmente più ascoltate e più presenti nell’opinione pubblica, l’unica che sembra uscire dal circolo vizioso puntando su altri equilibri è quella di Matteo Renzi. E lo fa con una sostanziale coerenza (pur non esente da qualche oscillazione, che certo è nulla rispetto a quanto si sente in materia dalle sue controparti). A fine ottobre del 2011, la seconda delle prime 100 proposte emerse dal suo “Big Bang” alla Leopolda recitava con nettezza:
Le elezioni diano potere ai cittadini non ai segretari di partito. Per ridare autorevolezza al Parlamento bisogna innanzitutto abolire il “Porcellum”, l’attuale legge elettorale che consente la nomina dei parlamentari da parte delle segreterie dei partiti, tornando ai collegi uninominali.
Al di là della naturale simpatia che io provo per chiunque abbia il coraggio di riproporre in modo credibile il ritorno all’uninominale, qui si era di fronte finalmente a una prospettiva precisa, che nel corso dell’elaborazione della proposta di programma per la candidatura alle primarie Renzi non ha mai smentito, pur attenuandola:
Adottiamo per il livello nazionale un modello istituzionale che consenta ai cittadini di scegliere chi governa, come già accade nelle nostre città, dove l’elezione diretta dei sindaci ha prodotto ottimi risultati. I deputati devono essere scelti tutti direttamente, nessuno escluso, dai cittadini.
Allo stesso tempo, i cittadini devono poter scegliere un leader messo in condizione di governare per l’intera legislatura e di attuare il programma proposto alle elezioni, come in Gran Bretagna o in Spagna, dove non a caso i governi durano a lungo, i primi ministri entrano in carica abbastanza giovani e dopo al massimo dieci anni passano la mano ed escono di scena.
Qui il riferimento all’uninominale non scompare (e anzi, col richiamo a quanto accade per i sindaci apre anche alle grandi potenzialità del doppio turno), ma diventa meno esplicito. Probabilmente, nella scrittura di queste righe alcune settimane fa Renzi e il suo staff si trovavano a gestire una delle tante strettoie del suo percorso di candidatura. Da un lato, il riferimento al ritorno al maggioritario e alla possibilità che esso offre ai cittadini di intervenire con maggiore chiarezza nella formazione delle istituzioni era un elemento che si percepiva importante per caratterizzare la posizione del sindaco di Firenze: trovava ampio consenso di pubblico, e soprattutto metteva Renzi al riparo dalle frequenti accuse di voler tentare una soluzione di larghe intese centrista, o coinvolgendo il PD o con una formazione autonoma, proprio perché certe soluzioni fatte sopra la testa dei cittadini erano possibili con altri strumenti elettorali, guarda caso assai cari a tutti i suoi avversari. Tuttavia, la concreta possibilità di vincere e quindi di confrontarsi con la quasi totale impossibilità di arrivare in tempi brevi al risultato sperato rendeva necessario trovare toni meno diretti, così da garantirsi spazio per possibili soluzioni di compromesso successive.
L’8 novembre, però, Renzi torna alla carica. Dichiarando il proprio disinteresse per alleanze e “accordi di potere”, e ritornando all’idea della necessità di un PD “autosufficiente”:
Questa volta e’ concreta la possibilita’ di farcela, il cambiamento non e’ mai stato cosi’ vicino. Lo vogliamo noi, ma soprattutto lo vogliono gli italiani. Ma la nuova stagione non passa dagli accordi di potere, non prende forma dietro un’estenuante ricerca di equilibri e dietro infinite trattative. Non mi interessano ne’ Vendola, ne’ Casini. Mi sta a cuore solo la nostra capacita’ di raccontare un progetto credibile per l’Italia,
il sindaco non buttava a mare (come molti si sono affrettati a sostenere) la coalizione per la cui guida si batte, almeno non più di quanto faccia Vendola ogni giorno parlando di lui. Ha infatti inteso dire due soprattutto due cose:
- le primarie non scelgono con quali facce fare quello che si è determinato tempo prima, ma scelgono programmi, e i partiti che vi partecipano ammettono implicitamente di inchinarsi alla direzione che esse prenderanno. Non si tratta di una concessione di sovranità gentilmente concessa da partiti che funzionerebbero al meglio comunque, ma di un modo che si è scelto (senza che nessuno lo ordinasse) di fare ciò che i partiti devono fare secondo l’art. 49 della Costituzione, ovvero essere lo strumento attraverso cui i cittadini possono “concorrere […] a determinare la politica nazionale”. Questo gioco della contrapposizione tra modello di partito aperto e modello di partito di militanti deve finire, e non può che chiudersi a favore di quello che nelle attuali circostanze storiche si è dimostrato più efficace nello svolgere le funzioni per cui un partito esiste. A maggior ragione, questa ambiguità non può essere mantenuta in piedi ad arte per gli interessi di una classe dirigente che attraverso essa intende sfuggire al confronto coi suoi elettori. Il PD esiste perché deve diventare un’arena regolata per l’incontro e la composizione del consenso in politiche e candidati, e la logica conseguenza di questo fine (che nessuno finora ha messo in discussione nell’unico modo possibile, ovvero ponendo fine al partito) è proprio il disinteresse per le alleanze, che non significa il loro rifiuto: semplicemente, esse hanno una ragion d’essere se avvengono sulla base delle scelte effettuate con le primarie, e nella prospettiva della creazione dell’arena regolata di cui sopra, altrimenti si possono evitare;
- a questa prospettiva di potenziamento dell’intervento popolare nelle scelte partitiche deve uniformarsi la proposta democratica per la riforma elettorale, e il punto di arrivo non può che essere il maggioritario. Questo ha chiarito Renzi stesso oggi a TGCom24, rilanciando di nuovo la sua piattaforma classica di predilezione per l’uninominale a doppio turno (tra l’altro arricchita dal riferimento diretto dell’esperienza francese con l’elezione di Hollande, qui non riportato):
Ci vuole una legge chiara dove tu la sera sai chi ha vinto, senza inciuci e imbrogli per cui voti per uno e poi viene eletto un altro. La cosa più semplice è applicare il modello di legge elettorale delle elezioni amministrative, ma non è un problema tecnico, è la volontà. Se i partiti vogliono dare il potere ai cittadini prendono a modello la legge dei sindaci, se vogliono tenersi per sé la legge elettorale fanno il porcellum o il cinghialum.
Stando a tutto quanto ho detto, però, resta un grosso problema: con questo suo nuovo intervento in materia elettorale, Renzi mette definitivamente tra parentesi sia l’impossibilità che una prospettiva del genere venga realisticamente realizzata in tempo utile per le prossime elezioni, sia soprattutto il fatto che con metodi di elezione diversi è altamente probabile che le alleanze diventino necessarie, e che quindi i partiti orbitanti a vario titolo attorno al PD mantengano un potere di ricatto tale da non doversi piegare, in caso di vittoria di Renzi, al responso popolare senza imporre una trattativa. Tutto questo secondo me si può interpretare in un modo solo: Renzi comincia a capire di non poter vincere, e quindi di non avere l’incombenza di dover proporre un programma d’azione effettivamente praticabile nel contesto politico attuale. Il suo obiettivo, ormai, sembra più che altro quello di perdere “bene”, con un risultato significativo che impedisca all’establishment bersaniano di considerare la sua presenza una febbre passeggera. Senz’altro, in caso di sconfitta, si ritirerà in buon ordine, senza alzare troppi polveroni polemici, essenzialmente perché non gli conviene, e perché sa che nel giro di un paio d’anni, quando la composita coalizione bersaniana avrà mostrato di non poter portare avanti una politica più incisiva di quella che abbiamo visto dal 2009 a oggi e che è stata ampiamente stigmatizzata da quasi tutti gli attuali sostenitori del segretario, l’opzione-Renzi potrà ritornare sul tappeto rinvigorita da una presenza sul territorio dei suoi sostenitori organizzati che nel frattempo non si sarà fatta inaridire. Buona parte della nuova strategia evidenziata da Peppino Caldarola in questi giorni si può leggere così.
In tutto questo, le uscite filo-maggioritarie di Renzi hanno comunque mostrato qualcosa di cui non si può non tener conto. Intanto, nell’opinione pubblica, il consenso per un sistema uninominale efficace e ben temperato da attenuazioni basate sull’ordinalità del voto (dopio turno o voto alternativo) ha ampio spazio ed è anzi una delle poche proposte di riforma del voto a suscitare più consenso che nausea in un elettorato non interessato al tema in generale. Ma soprattutto, con le sue forzature sulla questione-alleanze e sulla natura del partito, Renzi ha mostrato come i linguaggi, le percezioni e i comportamenti di gran parte dell’arena politica, sia alla base che al vertice, siano ancora dettati da una prospettiva maggioritaria: l’interesse per primarie che hanno un senso solo se la formazione vincente va al governo senza compromessi, la polarizzazione delle opzioni a tutti i livelli, il disagio per una soluzione consensuale (il governo “tecnico”) percepita come una eccezione da superare, sono tutti segnali del fatto che, dopo la breve e pur non felicissima esperienza dello spurio e complicato mattarellum il paese non sia tornato indietro dall’opzione maggioritaria, e che qualunque soluzione diversa da questa non potrà che approfondire il solco tra la società e la classe politica che dovrebbe condurla.