A mente freddaRiforme universitarie e falso mito della discontinuità

Ieri pomeriggio, alla Scuola Normale di Pisa, ha avuto luogo il primo incontro del Seminario nazionale promosso dalla Società italiana per lo studio della storia contemporanea (SISSCo) su "Universi...

Ieri pomeriggio, alla Scuola Normale di Pisa, ha avuto luogo il primo incontro del Seminario nazionale promosso dalla Società italiana per lo studio della storia contemporanea (SISSCo) su “Università e società in Italia dall’Unità alla Repubblica (1859-1960)”, del cui comitato scientifico sono coordinatore. L’incontro era incentrato sulla recente produzione storiografica su due specifiche sedi, quella pisana e quella pavese, per valutare come fosse possibile inserire i loro casi peculiari (accomunati da una particolare interazione di lungo periodo con strutture residenziali di merito) nell’ambito di un più generale studio delle vicende del sistema universitario italiano nel secolo successivo all’unificazione nazionale, in vista di un più ampio coinvolgimento di studiosi e di un allargamento della prospettiva che porti la pluralità dei “casi” italiani in una prospettiva di comparazione internazionale con altri modelli di formazione superiore.

Non è questo il luogo per esporre il gran numero di stimoli e suggestioni emersi dal confronto tra gli studiosi sulle possibilità per concretizzare i percorsi di comparazione, sulla necessità di interrelare approcci pluridisciplinari per mettere in reazione dinamiche istituzionali, intellettuali e sociali, sull’importanza di elementi come l’impatto degli atenei sul tessuto urbano e le traiettorie socio-culturali di docenti e studenti per chiarire l’impatto della formazione universitaria sulle comunità locali e nazionali, e sulle difficoltà dei primi sondaggi in merito. Si tratta di questioni che, messe in questi termini, interessano per lo più gli addetti ai lavori che si apprestano a imbastire ricerche sul tema universitario. Mi limito però a mettere in evidenza una questione generale emersa nella discussione dei vari interventi che si sono succeduti.

La scelta di concentrarsi, in via preliminare, su “due casi peculiari” (così recitava il sottotitolo dell’incontro) come Pavia e Pisa riportava giustamente l’attenzione sulla natura “policentrica”, anche dopo il 1861, della rete delle università italiane, sedi che in gran misura preesistevano lo stato unitario, e che si erano sviluppate con straordinaria continuità attraverso i secoli instaurando un rapporto specialissimo tra loro e con i centri di potere politico e sociale circostanti. Occorre però anche guardare a questo elemento originario da un’altra prospettiva: come è stato possibile mantenere questo stato di cose da parte di un sistema istituzionale e amministrativo nelle intenzioni così chiaramente accentrato, che non solo aveva fatto propri i modelli più noti di sviluppo “verticale” della vita universitaria come quello francese, ma che aveva mantenuto ben stretti al centro anche i cordoni della borsa, con un profondo legame tra sostentamento agli atenei e bilancio dello Stato?

L’idea è quella che si possa ampliare a tutta l’esperienza dell’Italia unita la definizione di “circuito incrementale” usata qualche anno fa dallo storico delle istituzioni politiche Francesco Bonini per descrivere gli interventi legislativi sulla formazione superiore nell’età repubblicana. Di fronte al gioco di interessi contrapposti maturato attorno alle sedi universitarie e al loro governo, lo stato italiano non è mai riuscito a imporre l’adozione di un ordinamento normativo e in generale di un sistema di sviluppo e di gestione univoco, che si sostiuisse a quelli vigenti in precedenza giungendo a cancellarli, e che offrisse un contesto in cui i vari elementi trovassero un loro posto. Si è invece proceduto a portare avanti legislazioni specifiche, relative a singole sedi o a singoli settori, e a cercare soluzioni provvisorie per problemi immediati ed emergenti, spesso aggredendo i sintomi di un malessere più delle sue cause.

Da questo punto di vista il rapporto complesso con l’università di un’isituzione atipica ed eccentrica come la Scuola Normale è illuminante. Nata come sezione italiana dell’Ecole Normale, era stata ripresa dopo la sua breve vita napoleonica sia dal governo granducale toscano che poi, in continuità, da quello italiano, con funzioni sostanzialmente simili di selezione e preparazione specifica, in un contesto residenziale che curasse oltre alla formazione culturale anche quella del carattere e dello spirito di servizio, per i docenti delle scuole secondarie, spina dorsale per lo sviluppo culturale di un paese arretrato sotto tanti punti di vista come l’Italia.

Ma oltralpe l’Ecole è divenuta ed è rimasta il vertice di un sistema che essa ha creato e regolato, in cui la produzione di docenti medi e superiori ha luogo all’interno della scuola d’eccellenza (oggi, di una pluralità di istituti) con continuità, e con numeri sufficienti per il fabbisogno francese, secondo un adeguamento reciproco dell’offerta della Scuola e dei passaggi amministrativi richiesti per accedere ai ruoli dell’insegnamento (senza andare troppo nel dettaglio, le scuole normali superiori rappresentano un importante punto di riferimento per la preparazione dell’esame per ottenere l’agrégation).

In Italia la Scuola è rimasta un’istituzione dalla collocazione incerta, legata a una università non centrale come quella parigina per la Francia e ancorata a piccoli numeri: l’idea di farne il modello per la formazione degli insegnanti medi di cui l’Italia aveva bisogno, riemersa nel corso dell’età liberale in varie forme, abortì sempre, e il reclutamento dei docenti liceali avvenne sempre in forme piuttosto improvvisate, con forme di verifica della preparazione a posteriori più che attraverso la proposta di un percorso di formazione controllato nei dettagli e capace di coinvolgere il numero di studenti adatto. Nonostante questo sostanziale fallimento del “modello-Normale” su scala nazionale, però, la Scuola ha continuato a vivere, e si è ritagliata un ruolo importante di introduzione precoce alla ricerca e agli alti studi di giovani di talento in maniera quasi informale, elaborando per “adattamento” all’ambiente un modello di formazione d’eccellenza nel contesto dell’università di massa che (ancora una volta senza esito) poi si è cercato di replicare in varie altre realtà, e soprattutto scontrandosi con i criteri di selezione dei docenti universitari più che vedendoli modificati in modo da acquisirvi un ruolo riconosciuto.

Più in generale, in tanti dei casi “peculiari” del vario policentrismo accademico italiano possiamo vedere, oggi, il risultato di tentativi incompiuti di realizzare modelli di ampio respiro e a vocazione nazionale, finiti dopo varie negoziazioni tra i poteri coinvolti ad alimentare un certo tipo di fisionomia delle istituzioni culturali locali. E questa impressione di lungo periodo può dirci qualcosa anche dell’oggi, di questo ennesimo tentativo di riforma che viene visto così spesso come una netta discontinuità: rispetto a un passato di inefficienza e di scarsa trasparenza secondo i suoi sostenitori; rispetto all'”università che vogliamo” e che il neoliberismo ci ha tolto secondo i detrattori. Probabilmente, l’interpretazione giusta potrebbe inquadrare quanto avviene oggi come il risultato di un altro aborto di un tentativo di un’ambiziosa ristrutturazione generale, che però come tante altre volte ha finito per aggirare o per rendere ancora più solidi gli ostacoli che si era proposta di superare ed eliminare. E che, in conclusione, lascerà sul sistema le sue scorie fatte di assunzioni casuali e incancellabili, di alimentazione di interessi corporativi e localistici, di insoddisfazioni da sanare con un nuovo intervento, non diversamente da quanto accaduto negli altri cicli di intervento sull’università.

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