A mente freddaSabino Cassese su università e valutazione della ricerca

Il 15 novembre Sabino Cassese, giudice della Corte costituzionale e studioso di Diritto amministrativo e di Storia delle istituzioni politiche, professore emerito alla Sapienza di Roma e ora docent...

Il 15 novembre Sabino Cassese, giudice della Corte costituzionale e studioso di Diritto amministrativo e di Storia delle istituzioni politiche, professore emerito alla Sapienza di Roma e ora docente di Storia e teoria dello stato presso la Scuola Normale di Pisa (di cui negli anni Cinquanta è stato in qualche modo allievo, essendosi laureato a Pisa come studente del Collegio medico-giuridico annesso alla Scuola), ha aperto il convegno su “Il sistema dell’università e della ricerca”, organizzato a Roma dalla rivista online di informazione scientifica e accademica ROARS.

Segnalo il suo intervento (il cui testo è ora disponibile online sul sito di ROARS a questo link) perché, forte di una esperienza internazionale ben consolidata e di interessi di ricerca comparativi piuttosto rari nell’ambito degli studi giuridico-amministrativi e istituzionale nel nostro paese, lo studioso è stato capace di esporre con lucidità e capacità di sintesi i più evidenti problemi del tentativo di riforma degli assetti universitari attualmente in corso nel nostro paese senza approdare a nostalgie fuori luogo su come (non) funzionavano le cose “prima”.

Cassese, infatti, non ritiene che il processo di riforma avviato dalla Gelmini e continuato (pur con tentennamenti iniziali) da Profumo rappresenti l’importazione di meccanismi di valutazione ormai rodati sul piano internazionale (e che quindi o sia da difendere sulla scorta degli esempi stranieri, o porti alla condanna in blocco di ogni forma di intervento valutativo sulla professionalità degli addetti alla ricerca e alla formazione superiore e sull’efficienza produttiva degli istituti). Caso mai, soprattutto a partire dal momento di implementazione della riforma Berlinguer per l’applicazione anche da noi dei dettami del Bologna process, il processo italiano ha acquisito di alcuni modelli stranieri (comunque soggetti, anche nei loro paesi, a diverse critiche e a profonde ridiscussioni) quasi solo le retoriche di autopromozione, ma non certo i contenuti. E proprio attraverso l’utilizzo dei più aggiornati criteri di definizione degli strumenti di analisi della produzione scientifica e del loro utilizzo per studiare il funzionamento delle istituzioni culturali l’autore arriva a individuare i limiti maggiori del sistema in corso di edificazione in Italia.

In primo luogo, nei vari mutamenti di Esecutivo strutture e dinamiche apparentemente simili sul piano giuridico e formale hanno visto sviluppi assai diversi e incontrollati. Tanto per fare l’esempio più chiaro ed evidente, l’Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) è ideata dal ministro Mussi essenzialmente per ripartire sulla base della qualità delle sedi e dei singoli istituti i fondi di ricerca e i posti di ruolo (per i quali si stava mettendo a punto un nuovo sistema di reclutamento, poi abortito), nell’ambito di un previsto ciclo di espansione delle risorse universitarie. Non si sa cosa sarebbe uscito fuori da tutto questo, soprattutto tenendo conto che il ministero dell’Università era saldamente in mano a una forza politica che rapperesentava il riferimento partitico classico di buona parte dei gruppi corporativi attivi all’interno delle varie discipline. Di certo, sarebbero accadute cose diverse da quanto avvenuto successivamente, con un’ANVUR divenuta cuore e centro nevralgico di ogni scelta di impegno economico e quindi bisognosa di una molteplicità di criteri di “classificazione” nelle intenzioni univoci e inattaccabili, peraltro in una situazione di restrizione continua della base finanziaria.

Soprattutto, del nostro sistema di formazione superiore non è mai stata messa in discussione la gestione essenzialmente verticistica e burocratica, neppure di fronte a un processo di realizzazione dell’autonomia che ha portato le strutture centrali di raccordo tra politica e professione accademica ad “auto-annullarsi”. Questo ha condotto a interpretare la valutazione delle attività accademiche soprattuto di ricerca secondo meri criteri di misurazione. Questo sta conducendo, nel breve periodo, a un sempre più evidente adattamento dei profili degli studiosi, della loro produzione e persino della ripartizione dei settori disciplinari e delle associazioni culturali di categoria, ai criteri di misurazione. Ma la situazione sta degenerando per ragioni ancora più radicali, vista l’impossibilità di imbastire sulla valutazione (nei desideri) oggettiva un intero sistema giuridico, senza incappare negli “anticorpi” che uno stato di diritto ha maturato contro l’arbitrio. Così, infatti, conclude Cassese.

L’Anvur, burocratizzando misurazione e valutazione, si sta trasformando in una sorta di Minosse all’entrata dell’Inferno o di Corte dei conti con straordinari poteri regolamentari, ma ignorando le conseguenze della amministrativizzazione della misurazione e della valutazione: la scelta degli esaminatori, la selezione dei docenti, lo stesso progresso della ricerca saranno decisi non nelle università, ma nei tribunali. Ne è prova la sentenza del Tar Lazio, Sez. III, n. 08408 / 2012 dell’11 ottobre 2012, che ordina all’Anvur l’esibizione dei documenti preparatori della classificazione delle riviste e ne è un segno premonitore il Documento di lavoro CUN del 24 ottobre 2012 che elenca le questioni aperte circa i criteri di valutazione per le procedure di abilitazione. E questo è solo l’inizio: altri interventi dei giudici amministrativi seguono (si vedano le ordinanze dello stesso giudice del 9 novembre 2012 04028 e 0424) e inesorabilmente seguiranno.

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