Che tempio faSe papa Giovanni diventa “patrono” del mondo militare

Papa Giovanni XXIII e don Primo Mazzolari uomini e preti di pace? No, «testimoni della fede nel mondo militare». È questa l’interpretazione dell’Ordinariato militare per l’Italia che, per l’Anno de...

Papa Giovanni XXIII e don Primo Mazzolari uomini e preti di pace? No, «testimoni della fede nel mondo militare». È questa l’interpretazione dell’Ordinariato militare per l’Italia che, per l’Anno della fede appena cominciato, ha individuato una serie di testimoni – soldati e cappellani – che «hanno vissuto la franchezza dei profeti, non temendo di rischiare anche la vita». E fra questi anche diverse figure assai care al mondo pacifista e cattolico di base, tra cui, oltre a Roncalli e a Mazzolari, anche don Giulio Facibeni (1884-1958), cappellano militare nella prima guerra mondiale ma soprattutto fondatore di opere sociali.

L’operazione “revisionista” – peraltro non nuova – dell’Ordinariato militare appare chiara: isolare alcuni momenti del servizio pastorale di questi preti, ovvero quello del servizio militare obbligatorio oppure del ministero di cappellano, sganciandoli dalla interezza della loro vita e dandogli un valore esemplare e totalizzante. Dimenticando tutto il resto, compresi i pentimenti e le autocritiche, anche severe.

È il caso di don Mazzolari, interventista democratico nella prima guerra mondiale («la patria è di tutti e ha bisogno di tutti», scriveva nel 1915) a cui partecipò come cappellano militare volontario, prima negli ospedali militari di Genova e di Cremona, poi in Francia, al seguito delle truppe italiane che occupavano le zone abbandonate dai tedeschi. Un’esperienza però che il prete di Bozzolo rinnega assai presto, complice anche la morte del fratello Peppino al fronte, sul Sabotino. «Ho schifo (…) di tutto ciò che è militare», scrive, già durante il conflitto, all’amico don Guido Astori. Nel 1928, dieci anni dopo la fine del conflitto, riconsidera il suo giovanile entusiasmo interventista: «Anch’io (è una confessione che vi debbo per sincerità) nel 1914 consideravo, per ragioni ideali di giustizia, che si dovesse intervenire nel conflitto europeo. Ero un ragazzo di 24 anni, piena la mente di libri e di idee»; «Anch’io, ripeto, ho peccato contro lo spirito del Vangelo e della Chiesa». Nel 1952, poi, nella Pieve sull’argine, sembra rivolgersi proprio alla “Chiesa militare”: «Se invece di dirci che ci sono guerre giuste e guerre ingiuste, i nostri teologi ci avessero insegnato che non si deve ammazzare per nessuna ragione, che la strage è inutile sempre, e ci avessero formati ad una opposizione cristiana chiara, precisa e audace, invece di partire per il fronte saremmo discesi sulle piazze». Infine, nel 1955, pubblica Tu non uccidere – in forma anonima, per sfuggire alla censura ecclesiastica, che interverrà solo nel 1958, ordinando il ritiro del libro già alla seconda edizione – in cui critica la dottrina della guerra giusta ed esalta la nonviolenza.

Ma è Giovanni XXIII – autore della Pacem in Terris che condanna la guerra in maniera inequivocabile come irragionevole («alienum a ratione») – «la prima figura esemplare di questo percorso che proponiamo, a partire dal 4 novembre, giorno in cui si festeggiano l’Unità nazionale e le Forze armate», si legge nel sussidio dell’Ordinariato militare. Del “papa buono” mons. Vincenzo Pelvi, arcivescovo castrense, fa un ritratto “tricolore”: «Egli volentieri come i giovani della sua zona andò soldato e, come aveva appreso dall’educazione cristiana in famiglia, considerava importante esprimere riconoscenza e rispetto per la Patria, seminando, pur in un contesto così tremendo di sacrificio e dolore, l’ideale della pace. Lo scoppio della guerra nel 1915 lo vide prodigarsi con autentico eroismo».

La realtà storica però appare un po’ diversa dall’eroismo patriottico raccontato dal mons. Pelvi, che vorrebbe papa Giovanni anche “patrono dell’esercito”: Roncalli il servizio militare l’ha svolto, fra il 1901 e il 1902, a Bergamo, ma solo perché si arruolò al posto del fratello maggiore, la cui presenza era necessaria in famiglia per il lavoro nei campi. E poi dal 1915 al 1917, durante la I guerra mondiale, fu cappellano nell’ospedale di Bergamo. Ma «tornato a casa – scrive nel suo diario – ho voluto staccare dai miei abiti e da me stesso tutti i segni del servizio militare», che fu una «schiavitù».

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