A mente freddaTagli e retorica dell’eccellenza: gli effetti sull’università

Pochi giorni fa Andrea Bellelli, docente di Biochimica alla Sapienza e blogger di cose scientifiche e universitarie per Il Fatto Quotidiano, ha pubblicato un interessante post in cui, partendo dall...

Pochi giorni fa Andrea Bellelli, docente di Biochimica alla Sapienza e blogger di cose scientifiche e universitarie per Il Fatto Quotidiano, ha pubblicato un interessante post in cui, partendo dall’intensità della sua giornata lavorativa-tipo, denuncia le conseguenze del sostanziale blocco delle assunzioni e del taglio ai finanziamenti per il personale negli atenei italiani. Su diverse sue posizioni non sono d’accordo, forse per ragioni generazionali: di solito, chi come me è cresciuto in un mondo in cui la propria presenza al lavoro deve essere giustificata ogni giorno attraverso prestazioni professionali di buona qualità fa fatica a “sintonizzarsi” sulla lunghezza d’onda di persone per cui il posto fisso è la base di partenza per cominciare a vivere, e lo stipendio garantito a personale inadeguato è il prezzo da pagare per una società genuinamente egualitaria. Tuttavia, questa volta mi sono riconosciuto in molto di quello che ho letto.

Intanto, in un periodo in cui, in un settore distinto da quello dell’istruzione superiore ma ad esso correlato, molte voci protestano per il mancato aumento delle ore di lezione dei professori di liceo da 18 a 24 ritenendo che quelle siano le effettiv e ore di lavoro di un docente, vale la pena mettere in chiaro che l’aumento indiscriminato dell’impegno in lezione non può essere in alcun modo una soluzione contro i (sicuramente presenti) “fannulloni” che approfittano dello scarso controllo della professionalità. Già nel mondo dell’insegnamento medio, ma ancora di più per tutti gli aspetti della didattica universitaria, assicurare una parte della propria attività alla ricerca e allo studio personale è importante non solo perché gli atenei rappresentano il centro vitale della “produttività” dell’alta cultura e delle forme di conoscenza più avanzate, ma anche (e forse soprattutto, almeno per le discipline umanistiche) perché dai risultati del lavoro scientifico dei docenti dipende la qualità dell’insegnamento, il suo aggiornamento, l’efficacia del rapporto con gli studenti. Così Bellelli:

Posso naturalmente “ottimizzare” il mio rendimento. Ottimizzare in questo contesto è un eufemismo che significa ridurre la qualità del servizio prestato rendendolo il più possibile stereotipato e riproducibile da un anno all’altro. Infatti è chiaro che fare quattro ore di lezione al giorno tutti i giorni della settimana è possibile solo se gli argomenti scelti per il programma sono poco aggiornati e non innovativi, perché innovare vorrebbe dire studiare, cioè usare del tempo, che non ho.

Ma secondo me, nella sua riflessione, l’autore ha il merito di mettere il dito in una piaga ben più grave:

Però mi da fastidio l’atteggiamento spocchioso dei valutatori, che fanno finta di ignorare la situazione di carenza drammatica di docenti nell’università italiana e discettano di eccellenza scientifica, meritocrazia e mediane. L’università italiana dopo tagli e blocchi di assunzioni è ormai al collasso e non è l’eccellenza a mancare ma la mano d’opera: l’equipaggio non basta più per far navigare la nave; e non è neppure una nave così grande perché l’Italia ha meno studenti universitari e meno laureati di tutti i suoi vicini europei.

In queste poche parole è ben espressa un’impressione che effettivamente, valutando l’atteggiamento tenuto negli ultimi anni dalle istituzioni preposte al governo dell’università italiana, è sorta in molti. Già avevo notato tempo fa che le riforme votate a fine 2010 da un parlamento in cui non era più presente una maggioranza politica se non a costo di corrompere alcuni deputati erano così urgenti essenzialmente perché impedivano agli atenei di spendere fino a nuovo ordine, e quindi garantivano il blocco di un’importante sorgente di spesa pubblica in un momento in cui era necessario tagliare il necessario per alimentare lo spreco su cui si fondava il consenso di un’intera classe politica.

L’effetto di queste scelte nel giro di un anno è stato l’espulsione di circa ventimila ricercatori precari già dotati di esperienza (oltre la metà delle “braccia” non strutturate che consentivano all’università italiana di sopravvivere nell’erogazione dei servizi e di avere risultati di ricerca decenti), riassorbiti solo in minima parte con contratti di pochi mesi per volta. La riduzione di dipendenti, naturalmente, sta comportando un progressivo decadimento dei servizi, determinato sia dal sovraccarico di lavoro per i docenti rimasti (molti dei quali sono stati assunti secondo criteri casuali, e quindi non sono in grado di sopperire al talento di professionisti migliori di loro lasciati a casa perché non ancora inamovibili), sia dal sovrannumero di studenti in molti corsi fondamentali e dalla conseguente impossibilità di un rapporto didattico fruttuoso col proprio istruttore.

Le istituzioni politiche e amministrative dell’istruzione superiore italiana, però, hanno spesso giustificato questa riduzione delle risorse e della forza-lavoro universitaria attraverso il concetto di “eccellenza“. In poche parole, quando mancano i soldi per finanziare un certo numero di progetti di ricerca pur ritenuti idonei, o quando non si possono stanziare fondi per contratti e borse, si dice sempre più spesso che lo stanziamento non avviene non per mancanza di denaro, ma perché si è scelto di garantire i soldi necessari solo all'”eccellenza”, e i progetti e gli individui destinati a rimanere a secco non sono abbastanza “eccellenti”.

L’argomento fa certamente una certa presa. Del resto, se qualcuno è mediocre è colpa sua, si penserà, quindi perché qualcuno dovrebbe reclamare attenzione se è stato riconosciuto non abbastanza “eccellente”. Basta ricordare cosa scriveva nel 2008 Roberto Perotti nel suo (ora giustamente quasi dimenticato dall’autore stesso) instant book sull’università:

L’università è diversa dal liceo proprio perché il suo compito è promuovere e coltivare le eccellenze, sia tra i ricercatori sia tra gli studenti […]. Fare ricerca è dunque una condizione necessaria, e in gran parte sufficiente, per una università di successo […]. L’università deve produrre ricerca d’avanguardia.

Ma valutazioni come queste sono inserite in un quadro storicamente inesatto, come giustamente ha ricordato Mauro Moretti nella sua recensione al volume di Perotti:

Il sistema universitario, in realtà, ha avuto ed ha finalità molto più complesse e diversificate; se in Italia si dovessero solo, o prevalentemente, coltivare le eccellenze e fare ricerca di punta, i circa due milioni di studenti attualmente iscritti non avrebbero senso in rapporto alle prospettive del sistema, ed anche duecentomila sarebbero davvero troppi. La ricerca è condizione necessaria, soprattutto sul piano della qualificazione e della selezione dei docenti, ma è ben lungi dall’essere sufficiente a dar conto del funzionamento e degli scopi dell’istruzione superiore, e delle ragioni per le quali, da almeno due secoli, i grandi Stati moderni hanno investito energie e risorse in questo settore.

Si può poi discutere all’infinito sul fatto che in Italia non si sia mai voluto iniziare il complesso cammino per giungere in modo efficace a un sistema di atenei diversificati nelle loro funzioni (e quindi nella qualità e nell’ampiezza dei servizi) secondo la distinzione tra università di ricerca e di insegnamento. L’idea di fondo del sistema italiano, tuttavia, allontana ulteriormente il nostro paese dalla possibilità di realizzare in qualche modo un sistema del genere, quantomeno per due ragioni:

  • Nel rapporto coi grandi centri di ricerca di rilievo internazionale, in qualunque paese del mondo le università “ordinarie” hanno comunque un ruolo centrale. In primo luogo, esse garantiscono la formazione accademica di massa di cui ogni paese sviluppato ha bisogno e su cui l’Italia ha il maggior terreno da recuperare, visto lo scarso numero di laureati e la preparazione più fragile di molti di essi in certi settori. Inoltre, ben lungi dall’essere sedi di serie B, le teaching universities rappresentano il serbatoio principale per le grandi research universities, sia perché in sedi periferiche fa pratica il personale accademico poi destinato a gestire le grandi sedi sia perché nelle università più grandi si forma la “massa critica”, il lavoro di quantità o di indagine specifica, di cui necessariamente si alimenta un progetto di ampio respiro.
  • Ormai è noto che nessun sistema di valutazione e di selezione rigido e immodificabile, come quelli che si stanno mettendo a punto da noi, può essere efficiente, perché è impossibile l’indispensabile correzione degli inevitabili margini di errore. La tendenza che sembra affermarsi è invece quella contraria, che tende a negare ogni possibile difficoltà nelle scelte e a scaricare sugli sconfitti la responsabilità di non trovare la possibilità di svolgere il loro lavoro.

Questi problemi sono sotto gli occhi di tutti, non solo in Italia. Ma allora perché non si procede a qualche intervento che muti la rotta? Molto semplicemente perché, al gruppo di lavoro diretto da Profumo tanto quanto a quello precedente, l’effettivo sviluppo di un sistema di formazione e ricerca efficiente interessa poco. Conta molto di più la possibilità di giustificare sul piano della “narrazione” la gestione risorse continuamente decrescenti laddove, invece, sarebbe necessario accompagnare interventi incisivi con un autentico piano di espansione dell’accesso alla formazione superiore.

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