«L’intrigo è superiore al talento: dal nulla produce qualcosa; mentre per lo più le immense risorse del talento servono solo a fare l’infelicità dell’uomo», scriveva Balzac in quel grande libro sul giornalismo che è Le illusioni perdute. Ora, io non so se Clemente J. Mimun sia un giornalista senza talento, so per certo che non è un giornalista del mio pantheon personale, e non penso mai a lui quando penso non dico a un grande giornalista ma a un giornalista tout court. Piuttosto ho un ricordo esulcerato del suo TG2 (ne cito uno che rammento particolarmente, lui li ha diretti tutti i TG dalla RAI a Mediaset) infarcito di fattoidi e orripilanti mostre canine. Sicuro è che ha mostrato un talento inenarrabile ad alimentare quel mass-cult, vero e proprio ciarpame televisivo, invocando la sanatoria che è quello che la gggente vuole. Un giornalista in cui anche le virgole sono state ricondotte allo strumento di arma di distrazione di massa.
Ho perciò comprato Ho visto cose in formato ebook – dopotutto, mi sono detto, un ebook non lascia quasi traccia per i miei futuri biografi che potrebbero cogliermi nel reato ecologico e intellettuale di aver comprato un volume di carta di Clemente J. Mimun – nella speranza che, steso su quello speciale lettino dello psicoanalista che è sempre un libro autobiografico, Mimun si distraesse e facesse “parlare” il suo inconscio, vuotasse il sacco e ci raccontasse com’è stato possibile in quel triplice cerchio infernale che è l’Italia dei familismi, la Roma papalina nepotistica e quella vera e propria suburra che è la RAI, una biografia così “americana”, di uno che inizia da fattorino e finisce da megadirettore. Io avevo bisogno di un romanzo, di qualcuno che mi depistasse e mi desse l’idea di quell’aspetto creativo dell’intrigo al cui fascino soggiaceva lo stesso Balzac pensando al suo Vautrin.
Mi venisse un accidente se ho pensato solo un attimo che dietro Clemente J.Mimun ci fosse un grande talento.
In esordio di lettura ho sperato nelle torte in faccia, in una resa dei conti con i nemici di sempre: che gliela cantasse a quelli di sinistra (detto da un socialista acquista caratteri surreali) o facesse una “cantata” su tutti i raccomandati RAI. Stiamo ancora aspettando un grande romanzo sulla RAI specchio della lutulenta e disordinata Italia, che tragga ispirazione dal romanzo di Balzac. Poteva essere questa l’occasione: dopotutto Le illusioni perdute è il dipanamento narrativo di un grande intrigo.
Trattare come meritano vigliacchi, mascalzoni e leccaculo che in questi quarant’anni mi sono trovato di fronte o alle spalle, oppure trovare un giusto equilibrio tra storie, comportamenti ed emozioni?
Ecco, ci siamo, penso io. Ma sciaguratamente viene imboccata la vena aneddotica e nostalgica, l’effetto flou dell’Amarcord (che trova una citazione diretta nel libro) all’amatriciana. Peccato!
Per intanto nel nostro ebook si autodefinisce «uno dei più importanti giornalisti televisivi italiani». Avete letto bene: non bravo, prestigioso, talentuoso, indimenticabile, magistrale, ma importante neanche fosse un commendatore: una pennellata semantica neutra che non si compromette con un’ardita qualificazione ma con la quale comunque non si sminuisce alla vista propria e a quella offerta al pubblico dei lettori. Importante come un commendatore (e tale è per davvero!) , o piuttosto come quei lati B che le belle donne si portano a spasso. Un lato B “importante”.
E a proposito di lati B, si vorrebbe che di fronte a certi colpacci (la lottizzazione RAI degli anni ’70) i beneficiati da questo regalo del destino si rifugiassero in qualche Bahamas o Kenia dello spirito a rosicchiare tranquillamente la refurtiva di una esistenza inautentica vissuta all’ombra dei poteri. Macché è tutto un giulivo “ho visto quello e ho visto quell’altro” … Quando Pertini gli offrì un caffè alla buvette, quando chiacchierava amabilmente con Berlinguer allo stadio e il segretario del PCI si abbandonava a confidenze con Mimun di cui lui, galantuomo, non avrebbe approfittato professionalmente, quando fu ricevuto in udienza privata dal Papa , quando scambiò quattro chiacchiere con l’Avvocato…
Ma arriviamo al punto. Pertini «sapeva che ero un elettore socialista». Qui c’è una pudica ellissi narrativa. Chi glielo aveva detto? Glielo aveva soffiato in un orecchio Mimun che pure lavorava in una democristianissima agenzia giornalistica? In un’epoca in cui si cantava “che basta conoscere un socialista” per risolvere ogni problema Mimun butta lì con nonchalance la sua fede? militanza? convinzione? credo? socialista, senza aggiungere altro. Mimun si definisce, e così definisce Mentana, socialista. «Ero un craxiano, coperto, ma convinto», si definisce bizzarramente. Ci si aspetterebbe perciò almeno un tratteggio scoperto della propria evoluzione intellettuale. Era un’epoca quella in cui ci si immamorava sul filo dei Grundrisse poi diventate le illusioni perdute di molti. Qual era il libro tormentone di Mimun? Quando diventò socialista, perché, quale moto di idee lo spinse in quello stato d’eccitazione mentale e intellettuale che i carbonari con fare circospetto e commosso chiamavano “L’Idea”. Avrà visto un quadro di Pelizza da Volpedo? Sarà stato scosso da “L’alzaia” di Telemaco Signorini, una testimonianza straziante sulla fatica umana, protosocialista? Si sarà commosso davanti alla fatica di qualche facchino? Avrà letto Turati, la Kuliscioff, Bernstein? Niente: era socialista, o meglio era in quota socialista. Un lottizzato senza Idea.
Si va avanti nella lettura.
Nella primavera del 1983 chiesi le ferie e aiutai, da volontario non retribuito, Claudio Martelli, in campagna elettorale per diventare deputato a Manotva.
Come interpretare questa frase? Come l’inizio di una grande carriera di un militante politico o di un giornalista che dovrebbe essere terzo verso il potere politico? E come si può raccontare vicende così senza tempestare di note a piè pagina il testo dicendo che questo lavoro in italiano si chiama galoppinaggio e che galoppini erano in tanti fra i giornalisti italiani e che questo volontariato non retribuito era un in realtà un do in attesa di un ut des e che lo facevano tutti, che il giornalismo televisivo italiano è così, che il primo passo di una grande carriera si inizia così puntando su un potente, nobilmente, da “volontario non retribuito”?
Fino a quando arriva il momento fatale, quello dell’assunzione in RAI. Che viene raccontato epicamente così:
Alla RAI si preparava l’ennesima lottizzazione: molti giornalisti dall’ “Unità” (Antonio Caprarica e Candiano Falaschi), tanti democristiani DOC, il liberale Filippo Nastasi, il giovanissimo Francesco Pionati, alcuni precari interni di valore come Barbara Scaramucci, sostenuta anche dalla CISL, e Marco Franzelli. Tra i socialisti, all’ultimo istante , si registrò la clamorosa defezione di Onofrio Pirrotta, che preferì la vicedirezione dell’Agenzia Adnkronos. Così mi arrivò la telefonata dell’ufficio del personale della RAI che mi convocava in Viale Mazzini. Abituato a lavorare moltissimo e a guadagnare ormai discrete cifre, mi sentii offrire un terzo della paga precedente ed esitai. Ma lì dentro tutti mi ripetevano come un disco rotto : “Noi dobbiamo assumere tre democristiani, due comunisti, un socialista, un repubblicano, un socialdemocratico, un liberale e uno che lavora”.
A quale categoria apparteneva Mimun? All’ultima, no?
Si trattava di un sistema lottizzato, ma paradossalmente c’erano più garanzie di oggi, perché i singoli partiti mandavano avanti i giornalisti più in gamba. Non funzionava come “Se sei più fedele entri”, ma “Se hai capacità, vai avanti”. I servi sciocchi non servono a niente. Fanno innanzi tutto danni, fanno un giro e non vanno lontano.
Credetemi è del tutto inutile chiedere a Mimun, chiuso a riccio nella sua logica giustificazionista, dove “c’erano più garanzie di oggi”: nel pluralismo dell’informazione? Nella libertà del singolo giornalista? Nel servizio alla verità? Nel rispetto del pubblico televisivo e del pagatore corretto del canone? Nei riguardi della propria coscienza? Mimun s’è costruito il suo bel castelletto inespugnabile: difficilmente gli farete dire che c’è l’intrigo dove lui vede semplicemente il talento, il suo. Ad un certo punto non spiega più nemmeno i retroscena: «Nel settembre ’94 fui nominato direttore del Tg2, e lo appresi da Letizia Moratti». Perché? Da chi fu nominato? La solita componenda socialista, si suppone. C’è poi una allusione stranissima: pare che alla RAI oltre che essere sostenuti dalla maggioranza di governo occorresse avere un placet di Muccioli, quello della comunità di San Patrignano. Una cosa incredibile che un guru di una comunità di cura di tossicodipendenti avesse una sorta di diritto di veto su una azienda pubblica. Inutilmente vi aspettereste un commento stupito di Mimun. Il suo è un “realismo” al limite del cinismo, come ce n’è tanto, troppo in Italia. Digerisce tutto: il mondo va così sembra dire, sono gli organigrammi informali a dirigere le aziende pubbliche in Italia: che sia un partito, un sindacato o l’amministratore di una casa di cura, cosa importa, cosa cambia?
Mimun non è né Zola né Dickens, due giornalisti usciti da condizioni sociali difficili grazie al proprio talento, è un esemplare di questa fauna di giornalisti italiani con forti connotazioni del peggior milieu romanesco ( ma era romano anche l’inventore del termine “lottizzazione”, l’arcigno e magnifico Alberto Ronchey) per cui “sempre meglio che lavorare” è il motto del loro mestiere di giornalista. Mimun non trascina nemmeno la simpatia complice e antropologica che in Italia ricevono quei lestofanti di lusso che si chiamano faccendieri o anche “artisti della vita” (Lebenskünstler li chiamano i tedeschi) quei “cavalieri di industria” (non pensate ai commendatori, nella lingua italiana sono delle persone che vivono di espedienti) alla Felix Krüll. No: in lui ogni parola suona falsa e insincera (salvo la nota finale dell’ictus), con il doppio fondo, come certe valigie alla frontiera, ci vedi dietro l’uomo ubiquo ai casi, che ha saputo fiutare senza sbagliare, infallibilmente, tutti i kairos che il potere da Craxi a Berlusconi gli offriva (anche del tipo risentito e furbo, da compensazione occulta “frega il potere che ti fotte”), un uomo che in ogni caso difficilmente si immagina hombre vertical anche se lui si definisce «un guerriero con una strategia» e affermi con orgoglio «chi cerca servi dalle mie parti è fuori strada». Non conta dire che tutti gli altri giornalisti RAI su cui celebra qualche vendetta postuma, Giorgino, Gruber, Maria Luisa Busi sono come o peggio di lui. Il che potrebbe anche essere vero, ma lui li rappresenta tutti, ne è l’amministratore delegato.
A me è sembrato lungo tutta la lettura di avercelo davanti con il suo musetto baffuto da topino furbo che l’ha sfangata nell’Italia caotica di sempre. Da ogni pagina sembra saltar fuori la sua faccia da furetto (refuso per furbetto) o da paraguru ( refuso di… lasciamo perdere). Ma a lettura ultimata ho spento l’ebook con l’assoluta certezza che l’Italia frastornata e debilitata di oggi ce l’ha lasciata la sua Italia: cinica e bara.