Esce nelle sale italiane lo straordinario thriller del danese Thomas Vinterberg con protagonista Mads Mikkelsen, premiato a Cannes per la migliore interpretazione maschile. In anteprima, ecco la recensione.
Non ho mai prestato molta attenzione alla scuola Dogma 95. Quando vidi per la prima volta Dogville di Lars Von Trier una decina d’anni fa ne rimasi molto delusa: perché il cinema doveva rinunciare a ciò che gli è proprio, per trasformarsi in teatro filmato? Era tutta qui la rivoluzione cinematografica tanto strombazzata? Le recenti escandescenze e gli estri antifemministi di Von Trier avevano contribuito ad affossare il mio interesse, fino a qualche settimana fa.
In anteprima nazionale, il London Film Festival mi ha permesso di vedere The Hunt, ultimo lungometraggio dell’enfant prodige Tomas Vinterberg, regista danese e coautore insieme a Von Trier del “voto di castità” degli autori affiliati a Dogma 95. Un film intenso, disturbante, superbamente girato: quanto bastava per risvegliare la mia curiosità. Coprodotto da Zentropa (di proprietà di Von Trier) The Hunt riprende gli elementi di analisi antropologica e sociologica già esplorati in Festen, distaccandosi tuttavia dai vezzi stilistici del film capofila dei titoli à la Dogma.
La storia è questa: Lucas (un magnifico Mads Mikkelsen, finalmente smarcatosi dai ruoli di cattivo-e-spesso-deforme) è insegnante in un piccolo villaggio danese, in cui tutti si conoscono e in cui il rito collettivo della caccia al cervo – riservato ai soli uomini – è una tradizione consolidata. Sta uscendo da un divorzio, ha una relazione difficile con il figlio adolescente e da poco, a causa di politiche di riduzione del personale, è impiegato come assistente in una scuola materna. Ciononostante, affronta le difficoltà con calma e sembra essere felice: almeno fino a quando la figlioletta del suo migliore amico, alunna di Lucas, gli rivolge l’accusa più infamante…
Il trailer ufficiale del film.
Pochi, precisi movimenti di macchina accompagnano l’azione che prende forma. Le inquadrature misurate, il montaggio pulito ci guidano nell’osservazione dell’escalation di una forma d’isteria collettiva, scandita dall’eterno mutare delle stagioni. Una luce calda, declinata nei toni dell’ambra e dell’ocra dona un tocco iperrealistico ai boschi danesi, arricchendone le immagini senza indulgere nel cinema di maniera.
Attraverso un dramma pieno di tensione Vinterberg si occupa di capri espiatori, menzogne e istinti primordiali che sonnecchiano nelle comunità apparentemente meno violente. In questo senso, la scelta di trasformare (malamente) il titolo per la versione italiana è fuorviante: nella storia messa in scena da Vinterberg ciò che conta non è l’accertamento finale della verità (e quindi l’iniziale sospetto) ma quello che succede nel frattempo. La caccia, selvaggia e cieca.