“Ricordo quel periodo come un sogno, un incubo incomprensibile… El Lute, la morte di Carrero Blanco, i pagliacci della TV appaiono tutti insieme nella mia memoria… Voglio annientare la rabbia e il dolore con una trovata grottesca che farà allo stesso tempo ridere e piangere”, Alex de la Iglesia.
Con il suo folle e visionario “Ballata dell’odio e dell’amore (Balada triste de trompeta)” Alex de la Iglesia costruisce una storia di amore e di morte violenta e truce, ma la immerge completamente nel complicato ventesimo secolo della sua amata-odiata Spagna.
I titoli di testa, con le fotografie di alcuni dei più feroci e sanguinari personaggi della storia del secolo scorso, sono già indicatori del messaggio che de la Iglesia vuole trasmettere con la sua opera, premiata (anche) per la sua sceneggiatura alla Mostra del Cinema di Venezia 2010: i “mostri” che hanno avuto spazio e potere in quel periodo storico sono stati tanti, troppi. Crescere in quel clima ha generato – inevitabilmente – altri mostri.
Il film inizia in piena guerra civile (1937-1938), quando l’esercito regolare repubblicano che provava a difendere il governo eletto del Fronte Popolare (la vittoria alle elezioni nel febbraio 1936 scatenò una serie di violenze in tutto il paese) si stava trovando sull’orlo della sconfitta contro i ribelli guidati da Francisco Franco (al comando insieme a Emilio Mola, Gonzalo Queipo de Llano e José Enrique Varela, gruppo di potere noto come i cuatro generales). Nell’aprile 1939, al termine della guerra vinta anche grazie al sostegno militare della Germania nazista e dell’Italia fascista, il cosiddetto Generalísimo assumerà la guida definitiva della Spagna instaurando un regime dittatoriale che durò oltre tre decenni.
Per cercare – invano – di resistere il più a lungo possibile, l’esercito legittimo si trovò a reclutare a forza chiunque capitasse, anche (come avviene a inizio pellicola) i clown di un circo di provincia.
Il destino della lotta è però segnato, i ribelli sono più forti e alcuni clown – tra cui il padre del piccolo Javier – pur sopravvivendo non avranno un destino gradevole: obbligati ai lavori forzati, saranno impiegati nella costruzione di un’opera imponente come l’enorme croce di Valle de los Caidos, nei dintorni di Madrid.
L’imponente monumento, costruito tra il 1940 e il 1958 (150 metri di altezza e visibile a oltre 40 km di distanza: Alessandro Pugno ha dedicato al monumento il documentario “All’ombra della croce”, presentato al Festival dei Popoli 2012) e scelto dal regista anche per il tragico epilogo, è stato pensato per la sepoltura del Fondatore della Falange Spagnola, José Antonio Primo de Rivera, morto durante la guerra civile.
Furono frequenti gli incidenti nel corso della complicatissima costruzione, e le grotte di teschi che nel finale diventano la scenografia di alcune delle scene più visivamente emozionanti dell’intero film si pongono quindi tra leggenda (realistica) e invenzione cinematografica.
Diventato adulto (il grosso della storia si svolge nel 1973, verso la fine della dittatura), Javier ha seguito le orme paterne diventando un clown, ma di quelli tristi: le infelici esperienze della sua infanzia negata gli renderebbero impossibile – gli aveva spiegato il padre in uno dei loro ultimi colloqui – far ridere i bambini. “L’unico modo che hai per invertire la situazione – gli dice il genitore – è la vendetta”.
La stabilità precaria del giovane clown è evidente. Trova lavoro in un circo dominato dall’ingombrante presenza del clown “capo”, Sergio, violento e ubriacone, che soggioga la bella del gruppo, l’acrobata Natalia. L’amore per lei e l’impossibilità di averla portano il pagliaccio triste al delirio, che si manifesta in una violenta aggressione al rivale in amore e alla definitiva follia.
A impedirne il “recupero” anche la tortura che gli impone una figura che ritorna dal suo passato: il Colonnello Salcedo, da lui involontariamente reso cieco da un occhio nell’inutile tentativo di far scappare il padre dalla prigionia, lo reincontra per caso in un bosco e lo imprigiona nella sua villa per vendicarsi.
Durante una battuta di caccia con l’anziano Generale Franco, costringe il prigioniero a fare il “cane”, riportando in bocca le prede uccise. Da questa umiliazione Javier uscirà definitivamente folle, e la sua fuga avverrà dopo essersi “trasformato” in un clown-prete (i riferimenti all’appoggio “mostruoso” della chiesa cattolica al regime non pare casuale) sanguinario e killer con un trucco indelebile che ricorda quello del Joker di Batman (solo che in questo caso è auto-inflitto).
Nella sua fuga alla ricerca della vendetta per l’amore mancato, Javier si ritroverà casualmente sul luogo dell’uccisione del capo del governo iberico Luis Carrero Blanco, morto dopo un attentato il 20 dicembre 1973. Su questo preciso avvenimento storico Gillo Pontecorvo nel 1979 girò un intero film, “Ogro”, interpretato da Gian Maria Volonté – ogro, orco, era il soprannome di Carrero Blanco: la strada su cui stava passando la sua macchina venne fatta saltare con oltre 100 kg di esplosivo, che fecero volare l’auto ad oltre 30 metri di altezza e la catapultarono nel cortile interno di un palazzo della via. Il primo ministro era considerato ai tempi il possibile successore di Franco, e la sua morte – vista la malattia del Generalissimo, da anni tormentato dal morbo di Parkinson – segnò una tappa fondamentale verso la fine della dittatura. Franco morì poi il 20 novembre 1975, e venne sepolto nella croce della Valle de los Caldos. “Di che circo siete?”, chiederà Javier agli esecutori del politico, membri dell’ETA. Una battuta feroce per riunire in un’unica follia il tanto sangue versato in quegli anni, anche da chi si considera paladino della libertà come il gruppo indipendentista basco.
Nel suo delirante vagare, Javier entra in un cinema dove viene proiettato il – vero – film “Sin un adios” del 1970, interpretato dal cantante-attore Raphael impegnato a intonare, truccato anch’egli da clown triste, la struggente canzone “Balada de la trompeta”, cover iberica di un brano del 1961 di Nini Rosso e che dà, col suo ritornello, il titolo al film.
Il gran finale delle gesta del folle clown non poteva che avvenire – come anticipato – all’interno e in cima all’enorme croce di Valle de los Caidos: qui si dà una giustificazione – o, meglio, una causa scatenante – alla pazzia del protagonista, nato e cresciuto in un clima di violenza e odio impossibile da sostenere.
Senza aggiungere caratteri fantasy, come diversamente ha fatto narrando lo stesso periodo storico (ma concentrandosi maggiormente sui primi anni) il messicano Guillermo Del Toro con “La spina del diavolo” e “Il labirinto del fauno”, De La Iglesia ne costruisce un quadro nerissimo, da cui si rimane incantati anche nei momenti più macabri.