Era molto atteso il duello televisivo Bersani-Renzi per il ballottaggio nelle primarie. Sia per il contenitore (la prima serata di RAI 1) che per l’importanza dell’oggetto del contendere. E tuttavia nessuna sorpresa, nessun colpo di scena. Piuttosto la conferma, secondo un copione ormai ripetitivo, che il conflitto si sviluppa tra l’innovazione e l”usato sicuro”, tra il cambiamento “morbido” e quindi rassicurante e gli spigoli a volte aguzzi della modernità.
Semmai era evidente un paradosso: i duellanti avevano una tribuna molto larga, quando le loro capacità di persuasione erano indirizzate nella contingenza ad un bacino molto più ristretto, ovvero i già registrati alle primarie del centrosinistra o i pochissimi ancora “registrandi”, ma con giustificazione dell’assenza al primo turno. E la giungla delle regole, sulle quali la polemica è stata però ben più limitata di quanto fesse lecito aspettarsi, ha finito per imporsi e limitare anche le “tentazioni” di “volare alto e concreto” su moltissimi temi programmatici di interesse più generale.
E’ emerso altresì il drammatico ritardo culturale della RAI che, se voleva davvero essere “servizio pubblico”, non poteva assolutamente lasciarsi scippare (oltretutto da un’emittente a pagamento) il primo confronto tra i cinque candidati, quando cioè la novità era più evidente e la curiosità dell’opinione pubblica molto più allargata. Ha rimediato (male) investendo sulla prima serata della rete ammiraglia (ad una platea abituata, per la politica, alle camomille di Bruno Vespa) e scimmiottando pedissequamente (come tempi, forme della discussione e scenografia) la fisionomia dei dibattiti presidenziali americani. E tuttavia rinunciando al clima rutilante e incasinato di “quelle” primarie di partito e soprattutto mutilando quello che negli Stati Uniti è componente indispensabile, ovvero mogli e figli dei candidati, altrove attori fondamentali della contesa per il consenso.
E il dibattito vero e proprio ha esaltato un aspetto difficilmente colto nelle sue implicazioni da tutti gli osservatori. Ovvero le convenienze convergenti di entrambi i protagonisti che in tutta questa avventura delle primarie hanno vissuto, quasi in un tacito gioco delle parti, una sotterranea (e ier sera affiorante) complicità.
Infatti Bersani ha avuto l’indubbia sagacia politica di favorire la competizione (formalmente esclusa dal vecchio Statuto) dove il più giovane rivale potesse legittimamente “sparare sul quartier generale” così da liberare il segretario da molte delle prigioni nelle quali si trova rinchiuso. Come la pressione soffocante di una “nomenklatura” invecchiata e presuntuosa, onusta com’è d’anni e di fallimenti. Così pure dall’obbligo di dover sempre inseguire la CGIL e la Camusso, a sua volta prigioniera della necessità di inseguire Landini e la FIOM…
Per l’impertinente sindaco di Firenze l’opportunità preziosa di avere aperti i canali dove lanciare un messaggio di novità e di rifondazione (con la “r” minuscola) della politica in un campo carico di stereotipi e di liturgie del passato. Renzi è forse il primo che non è culturalmente subalterno all’egemonia della sinistra tradizionale ed è carico di una energia fresca che sta trovando un “suo” popolo, capace di rimotivare, anche nelle regioni “rosse”, realtà stanche e disilluse. E forse può anche accettare di differire più in là (con il favore della giovane età) l’affermazione definitiva, lasciando al maturo segretario buona parte del lavoro duro, (se non “sporco”), particolarmente urgente e profondo. La cortesia e il rispetto mostrati in pubblico sono anche la magnanimità del “futuro vincente”.
C’è infine un elemento, che forse è poco elegante notare nel conformismo dell’informazione, ma che nel dibattito sulle primarie è emerso in tutta la sua solare chiarezza. E cioè la sconfitta senza remissione del cosiddetto “partito di Repubblica”, ovvero di quel coacervo intellettuale che, intorno al quotidiano, si arroga da lungo tempo la presunzione di influenzare, orientare e guidare l’intera politica del centrosinistra. Già scottato dall’estraneità a cui è stato condannato nella formazione del governo dei tecnici di Mario Monti, è sempre stato oltremodo schizzinoso verso il segretario Bersani e ostile fino all’esplicito disprezzo verso Matteo Renzi.
Ha sempre favoleggiato di un’altra figura, di un “papa straniero” per un centro sinistra poco “trendy” ma non è arrivato oltre l’ipotesi della “bolla mediatica” di un Saviano qualsiasi. E adesso il “partito di Repubblica” si rivela solo un supponente comprimario. Segno che (e non è la prima volta) che quando la politica si fa finalmente carne e non chiacchera, territorio e non Palazzo, la presunta influenza di Largo Fochetti si scioglie come neve al sole…