La conferenza sul clima andata in scena a Doha ha avuto pochi applausi. La questione ambientale pare interessi una cerchia sempre più ristretta di paesi, almeno tra quelli che possono prendere decisioni in merito. Circa 17000 i partecipanti al vertice ONU, provenienti da 190 paesi. Un bel numero. Peccato che non si è portato nulla di concreto a casa, solamente un “Doha Climate Gateway”, un accordo soltanto transitorio che conferma la “fase 2” di Kyoto.
Questa seconda fase durerà 8 anni (a partire dal 1 gennaio 2013), ma l’entità delle riduzioni obbligatorie di gas serra sarà decisa solo il prossimo anno. Bisognerà attendere il 2015 per conoscere i dettagli dell’accordo più ampio che coinvolgerà tutti i paesi delle Nazioni Unite e che entrerà in vigore solo nel 2020, al termine del “Kyoto 2”. Secondo i climatologi, in ogni caso, gli obiettivi che i governi nazionali hanno già comunicato sono di gran lunga inferiori a quanto occorrerebbe per contenere l’aumento di temperatura globale entro i 2 gradi centigradi. A prendersi l’impegno con un Kyoto-bis saranno unicamente Unione Europea, Australia, Svizzera e Norvegia, responsabili insieme solo del 15-20 per cento delle emissioni di gas serra. Alla defezione di USA, Nuova Zelanda, Giappone e Canada si è aggiunta anche quella della Russia ritiratasi dall’accordo per paura compromettere il proprio mercato energetico.
Interessante la copertina del Internazionale di questa settimana, che titola così: “Siamo fritti” e non si riferisce alla politica interna. No. L’inchiesta è stata fatta dalla Zeit, e lo scenario che apre non è molto confortante: pare che da anni esperti di comunicazione e scienziati sono pagati per convincere l’opinione pubblica che il riscaldamento globale non esiste e quel “Siamo fritti” si riferisce proprio ai dati sul cambiamento climatico che non danno segnali di miglioramento, anzi. Riporto di seguito due paragrafi:
…Il 20 dicembre 2007 le redazioni dei giornali e delle tv di tutti gli Stati Uniti ricevettero un rapporto di 175 pagine, apparentemente serissimo. Sotto l’intestazione della commissione per l’ambiente, con tanto di stemma del senato, si leggeva il titolo: “Più di quattrocento insigni scienziati mettono in dubbio le cause umane del riscaldamento globale”. Quasi tutte le redazioni abboccarono. Mancava poco a Natale: pochi giornalisti si preoccuparono di verificare i 413 nomi e le relative dichiarazioni. I quotidiani e i telegiornali citarono il rapporto senza sosta: dal New York Times al Boston Herald, dalla Fox News alla Cnn.
In realtà 44 di questi presunti scienziati erano solo annunciatori delle previsioni del tempo, 84 avevano lavorato per il settore petrolifero, 49 erano da tempo in pensione e 90 non avevano niente a che fare con gli studi sul clima. Gli altri erano ricercatori che non avevano mai messo in dubbio che il cambiamento climatico fosse provocato dagli esseri umani ma che, come succede spesso nella comunità scientifica, si stavano confrontando criticamente con questioni come l’effettiva velocità dell’innalzamento del livello del mare.
Se questo è il vento che tira lungo la scia del disastroso uragano Sandy, c’è poco da sperare.
Secondo i dati dell’Agenzia Onu per l’ambiente Unep, dal 2000 ad oggi le emissioni sono aumentate del 20% anziché ridursi del 14% come era necessario. A questo ritmo le emissioni di gas serra raggiungeranno i 58 miliardi di tonnellate nel 2020, superando la soglia di 44 miliardi di tonnellate, ritenuta dagli esperti quella limite per contenere il riscaldamento globale terrestre sotto i 2 °C.
Da Doha, è anche arrivato l’invito ai Paesi ricchi, Germania, Regno Unito, Francia, Danimarca, Svezia e la Commissione europea per un impegno finanziario concreto da oggi fino al 2015, per un totale di circa 6 miliardi di dollari. I paesi sviluppati dovrebbero mantenere le promesse fatte continuando a sostenere i finanziamenti climatici a lungo termine al fine di mobilitare 100 miliardi di dollari sia per l’adattamento e la mitigazione entro il 2020. Per ora però sono solo promesse.
Hugo Chavez, al vertice climatico di Copenaghen del 2009, disse: “Se il clima fosse una banca lo avrebbero già salvato”. Certo, verrebbe da pensare che l’attribuzione di un valore economico al capitale naturale potrebbe essere una delle soluzioni più appetibili per chi ha i soldoni. Ci ha provato il Teeb (The economics of ecosystems and biodiversità) ad attribuire un valore economico ad alcuni ecosistemi: Le barriere coralline valgono 1,2 milioni di dollari per ettaro l’anno, derivati soprattutto dal turismo. La foresta amazzonica vale tra i 6,5 e i 13 miliardi di dollari all’anno solo come deposito di carbonio. Il Teeb in questo modo cambia l’unità di misura e la rende più comprensibile (e apetibile) e forse può spingere gli economisti ad alzare le antenne.