Siamo al secondo giorno dopo il ballottaggio e abbiamo letto molte cose interessanti sul fatto che l’elettorato del Pd ha avuto paura del cambiamento radicale e sul conservatorismo di Bersani. Ho le mie idee in proposito. Nel senso che non credo che il voto di domenica sia stato un voto conservatore né che lo sia Bersani come persona e come leader. Penso e spero che ci sorprenderà. Tuttavia quello che è mancato in queste ore successive al risultato delle primarie è un’analisi, un tempo si diceva autocritica, del mondo renziano che ci faccia capire come ha letto la sconfitta.
Quando si perde si può reagire in tanti modi. Nel ’53 Giuseppe Saragat, poi diventato presidente della repubblica, di fronte a una sconfitta del suo piccolo partito socialdemocratico, il Psdi, parlò di un “destino cinico e baro”. Oltre al destino spesso sono chiamate in causa le scorrettezze dell’avversario vincitore o la disparità di mezzi. Alcuni insistono invece su autocritiche talmente severe da far pensare che la partita si sia svolta fra un competitor e se stesso visto che nella sconfitta non viene presa in considerazione l’attività di chi l’ha provocata avvantaggiandosene. Mettetela come volete, ma l’analisi della sconfitta è uno dei pilastri nella difficile costruzione del leader.
Renzi ci ha provato a botta calda, domenica sera, con un bel discorso pieno anche di buone intenzioni. È solo un punto di partenza. Manca tutto il resto e cioè la risposta alla domanda vera: non perché tanti italiani hanno apprezzato il coraggio del sindaco di Firenze ma perchè la stragrande maggioranza non lo ha neppure lontanamente preso in considerazione come candidato premier. C’è in questo voto un giudizio sulla persona, sulla sua squadra, sui suoi messaggi. La persona-Renzi è apparsa probabilmente troppo arrembante e pronta a violare le regole. Accusa forse non vera ma attivata dagli errori soprattutto del secondo turno.
Renzi, poi, ha enfatizzato la rottamazione non riuscendo a far distinguere la sua polemica con i vecchi elefanti con un giudizio più equanime sulle persone di età che si sono sentite escluse mentre, nella maggioranza dei casi, in Italia sono ancora loro a portare il peso morale e economico delle famiglie. La foto con le nonne è stato un patetico rimedio. I vecchi a cui Renzi doveva riferirsi non sono quelli che sferruzzano la lana o giocano a carte ma quelli che sentono di avere energie fresche nelle vene e vogliono fare. Questo dialogo Renzi lo ha mancato. La sua rottamazione è sembrata troppo tranciante sulle culture. È stato lui a proporre l’usato insicuro blairiano descrivendo quel che lo ha preceduto e che secondo lui lo ha seguito come un museo degli orrori.
Un grande leader, o più semplicemente un leader, indica la prospettiva ma usa maggior accortezza nel maneggiare le memorie collettive. Nel tritacarne Renzi ha messo le culture delle sinistre, il 68, il sindacalismo ecc., il cattolicesimo democratico: troppa roba, sembrava quasi che il mondo dovesse nascere in questi giorni con il vangelo di Matteo lasciandosi alle spalle un prolungato peccato originale. Anche un innovatore tenace desiste di fronte a questo marinettismo politico. La squadra di Renzi è apparsa più mediatica di quella di Bersani. Le sue ragazze sono molto preparate e accattivanti. Ma Renzi non si è liberato dal sospetto, sicuramente ingiusto, di essere etero-diretto. Troppe frasi fatte, troppe battute ripetute, troppe risposte costruite in modo tale da arrivare a quel linguaggio preconfezionato, per dirla con un esperto della materia, Carlo Freccero.
Durante il faccia a faccia televisivo spesso compulsava il telefonino e anche questo faceva venire cattivi pensieri. Infine di Renzi non abbiamo colto la percezione drammatica della situazione che invece si è affacciata in Bersani. Sembrava tutto troppo facile mentre gli italiani sanno che non è così. Renzi voleva dare un messaggio di ottimismo invece ha dato un messaggio di superficialità. Queste sono le mie impressioni e sono già pronto a leggere gli insulti di alcuni renziani in servizio permanente effettivo. Mi stupisce di loro la fede cieca che la mia generazione, arrivata al Pci dopo il 68, non ha mai nutrito tranne forse che in Berlinguer. Non oso fare il paragone perché, malgrado tutte le revisioni critiche, il caro Enrico non ha più avuto eguali, neppure nei dintorni di Firenze.