Anche Valentino Parlato ha lasciato “Il Manifesto”. Dopo l’addio di Rossana Rossanda era rimasto solo lui nella vecchia trincea che ieri ha lasciato sconsolato. Questi abbandoni chiudono un’epoca. “Il Manifesto” è stato il simbolo di una sinistra eretica persino nella difesa finale del comunismo. Un gruppo di intellettuali politici che ha attraversato la storia della sinistra del Novecento con scarsi mezzi e grandezza di idee, anche quando non condivise o condivisibili. La loro fuoriuscita dal Pci segnò il punto più basso della democrazia interna di quel partito che si liberò di loro con un sussulto di stalinismo per aver violato le regole rigide del centralismo democratico. Sono stati operaisti e antisovietici pur nella colpevole agiografia della rivoluzione culturale maoista. Sembravano un gruppo compatto ma non lo erano, come hanno dimostrato le diverse scelte personali ma soprattutto per le diverse opzioni culturali.
Prendete Valentino Parlato, giornalista sopraffino, l’unico in grado di competere con il mitico Pintor, che con civetteria qualche volta si è definito amendoliano in una compagnia che faceva ostentata dichiarazione di fede per Pietro Ingrao. Rossanda è stata poi lo spauracchio dei suoi giornalisti e fustigatrice delle miserie dei suoi vecchi compagni di partito nonché dei nuovismi che si sono affacciati in questi anni. Non si comprende bene la ragione del loro distacco dal giornale che hanno fondato. Chi non ha seguito da vicino questo travagliato viaggio non ha colto le sfumature delle ultime vicissitudini. Resta l’amarezza della conclusione di un ciclo che allontana “Il Manifesto”, e quel che sarà, dal centro del dibattito politico. In fondo mi colpisce di più l’abbandono di Parlato degli altri precedenti. Valentino era rimasto attaccato al suo giornale sempre e nonostante tutto. Corsivista brillante, analista impareggiabile, critico dell’economia era stato l’uomo di frontiera dell’intero gruppo. Lui parlava con la gente di sinistra e con i potenti.
L’eterna sigaretta in bocca, Valentino non ha mai smesso di sporcarsi le mani restate regolarmente nette e libere. Non so come possa accadere che un gruppo di più giovani lasci andar via personaggi che rappresentano non la storia ma l’identità stessa del proprio stare al mondo, inteso come mondo politico-giornalistico. Non so se l’anatema finale dei vecchi sia stato fatto in nome del passato ovvero in nome di una rinnovata passione per le cose che si muovono nel mondo. Per quel che abbiamo visto dei vecchi del “Manifesto” è più probabile che siano loro i moderni e non coloro che li hanno lasciati andar via senza stendersi sui binari.
“Il Manifesto” non è mai stato il mio giornale, né ho mai avuto consonanza con gli orizzonti di quel gruppo. So che nella sinistra hanno avuto un ruolo, che su quel giornale si leggevano cose non banali (a parte le cosacce su Israele), che c’era bisogno di prendersi qualche schiaffo in faccia da questi sinistri brontoloni e saccenti per capire dove la sinistra ufficiale stava sbagliando. Per anni sono stati orgogliosi di essere dalla parte del torto (come recitava un meraviglioso slogan autoprodotto), per anni ci sono stati sulle palle e noi, riformisti e gente del post-Bolognina, a loro. Ora si può dire che la storia del “Manifesto” è finita. Forse quella storia è finita con il “Sarto di Ulm” il bellissimo libro di Lucio Magri che ha raccontato come altri non è riuscito a fare, tranne Macaluso, di tutt’altra ispirazione, l’intero ciclo del comunismo italiano. Non so se quelli che reggeranno “Il Manifesto” dopo Rossanda e Parlato riusciranno nell’impresa. È buona educazione fare loro gli auguri. Vorrei solo sapere dove scriverà ancora Valentino perché molti articoli dei suoi compagni di avventura non li leggevo, ma i suoi li ho letti tutti.