Kita Ikki (1883-1937) è considerato il principale ideologo del “tennosei fashiuzumu” (Fascismo giapponese) e dell’espansionismo giapponese. Nella sua visione la riorganizzazione autoritaria interna del Giappone sarebbe stata funzionale alla sua espansione in tutta l’Asia, fino all’India e all’Australia. Questo obiettivo avrebbe dovuto essere raggiunto attraverso un’alleanza con gli Stati Uniti nell’ambito di una rigida suddivisione del mondo in sfere di influenza. Un simile visione avrebbe poi influenzato la più famosa “Dottrina Matsuoka”, una vera e propria dottrina Monroe in salsa asiatica che, tra gli altri, aveva come obiettivo la lotta al comunismo in alleanza ad una Cina nazionalista in posizione subordinata. In luogo dell’alleanza vi fu la guerra per il dominio nel Pacifico, ma durante lo sforzo bellico l’Impero del Sol levante fece proprie alcune di queste opinioni: il Giappone doveva dare vita un “Nuovo Ordine Asiatico” nel nome della liberazione dell’imperialismo dell’uomo bianco e della nascita di una Sfera di Co-Prosperità per tutto il continente. La giustificazione ideologica del “diritto naturale” all’espansione si concretizzò, in realtà in uno dei più violenti imperialismi le cui principali vittime furono i popoli cinesi e coreano.
Tra tutte le atrocità commesse risaltano quelle perpetrate a Nanchino nel dicembre del 1937. In quei giorni, secondo la sentenza del Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente, si era sviluppata l’azione di una “orda barbarica impegnata dissacrare la città” con soldati che in solitudine o in piccoli gruppi “si sparsero per la città uccidendo, violentando e distruggendo: non c’era disciplina, molti soldati erano ubriachi; soldati si affollarono nelle piazze, nelle strade e nei vicoli, uccidendo in modo indiscriminato e senza apparente provocazione uomini, donne e bambini cinesi”. I numeri del massacro, indipendentemente dalla mancata concordanza nei calcoli, sono tra i più impressionanti: dai 260 mila secondo Tribunale ai 300 mila secondo Pechino.
La sconfitta nella seconda guerra mondiale portò ad una riorganizzazione interna di stampo democratico ad opera degli Usa, Paese occupante, sfociata poi in una nuova Costituzione che, oltre a spogliare di sacralità e di potere reale la figura dell’imperatore (aspetti mai messi in discussione dal fascismo nipponico), chiudeva con una lunga tradizione di militarismo: l’art. 9 prevede tutt’ora la rinuncia alla guerra per la soluzione delle dispute internazionali e il divieto di ricostituzione delle forze armate. In realtà nel 1954, in piena guerra fredda e con Tokyo subito assurto a bastione dell’anticomunismo nel sistema difensivo anti-sovietico statunitense, ricostituì forze militari terrestri, aeree e marittime sotto il tranquillizzante nome di Forze di autodifesa.
Un progetto Kita Ikki in versione subalterna?
La perdurante crisi economica, il crescente peso della Cina sulla scena internazionale e l’infiammarsi della contesa sulla isole Diaoyu/Senkaku hanno stimolato l’emergere di un rinnovato nazionalismo giapponese, ormai non più solo fisiologico patrimonio di gruppuscoli minoritari e nostalgici. Il sensibile spostamento a destra coinvolge ormai i partiti principali della politica giapponese come quello democratico e quello liberal-democratico. E tra gli esponenti di questi emerge Shinzo Abe, leader conservatore dei liberal-democratici e prossimo primo ministro alla luce dei risultati elettorali di sabato scorso. Alla vigilia dell’elezioni anticipate, è stato il più convinto nel riportare in auge la tematica della revisione costituzionale per chiudere una volta per tutte la parentesi del pacifismo per restituire al Giappone, assieme ad una “piena sovranità”, il diritto di rafforzare l’esercito e di esercitare a pieno titolo misure di difesa collettiva come il correre in aiuto di un alleato. La volontà è quella di aumentare le capacità di proiezione militare e di avere un ruolo più attivo nell’Asia orientale ora che, come sottolineato dal recente Libro Bianco sulla difesa, a preoccupare sono proprio le rafforzate capacità di proiezione marittima della Cina popolare.
Il quadro in cui inserire questa crescente voglia di protagonismo è quella del più volte annunciato “ritorno in Asia” degli Stati Uniti in funzione – nasconderlo sarebbe ormai ridicolo – di contenimento della crescita politica-economica e militare di Pechino. In un’area in cui sono esplose le contese marittime tra Pechino e diversi Paesi vicini, il ruolo di “vice-sceriffo” al riparo delle potenza di fuoco a stelle e strisce è molto ambito e non sorprende che in prima fila nel reclamarlo – mentre altrove come a Manila ci si accontenta della protezione dell’ex potenza coloniale – ci sia proprio il Giappone.