quelli che si lagnano per la data delle primarie perché loro a capodanno vanno a sciare #manginobrioches
Così Chiara Geloni, esponente non proprio di secondo piano del Partito democratico, ha commentato le prime voci che, dopo la conferma dell’idea di fissare le primarie per i candidati del PD in parlamento il 29-30 dicembre, avevano giustamente sottolineato la scelta quantomeno bizzarra, che mobilitava gli elettori per un impegno importante nel fine settimana dell’anno in cui con maggiore probabilità si sarebbero trovati lontani dal luogo di residenza a fare altro, senza peraltro che ciò fosse necessario, visto che anche con elezioni nella seconda metà di febbraio si sarebbe potuto tardare la consultazione senza problemi almeno di una settimana, se non di due. Si tratta di una frase che mi ha colpito perché secondo me è la spia di tutto un universo mentale che in questo periodo, tra i suoi colleghi esponenti di un certo rilievo di quello è già il partito italiano politicamente più rilevante, sono venuti fuori sempre più spesso. Ed è un universo mentale che mi preoccupa.
- Il problema delle persone che si trovano fuori casa potrebbe essere risolto dal voto online (che del resto ormai garantisce standard di sicurezza decisamente migliori di quello con carta e matita). Più sorprendente è il fatto che si consideri così poco importante la comunicazione politica, arma fondamentale per figure meno radicate all’interno del partito, e che intendono aggregare un consenso d’opinone e non clientelare. Insomma, che partano strutturalmente così sfavoriti proprio quei candidati per aprire il Parlamento ai quali si evita una composizione delle liste esclusivamente verticistica.
- La lamentela, che potrebbe essere discussa per ragioni organizzative (può anche darsi che posticipare il voto i tempi tecnici per la gestione della presentazione delle liste si facciano troppo stretti), ma che come ho detto non è insensata, viene immediatamente, quasi per riflesso condizionato, a polemica di classe. Chi non può votare a fine gennaio evidentemente può permettersi di andare in vacanza, e si sa, in tempi di crisi in vacanza ci vanno “i ricchi”. E “i ricchi”, costitutivamente “di destra” in quanto ricchi, da mesi non vedono l’ora di “infiltrarsi” nelle primarie, come ben si sa dopo l’esperienza del 25 novembre-2 dicembre. Che questo ragionamento (spesso non esplicitato ma, appunto, istintivo, e per questo tanto più subdolo) contenga ad ogni passaggio un errore di rilevazione dell’effettiva distribuzione del voto democratico tra le fasce sociali, o una percezione distorta dei comportamenti sociali, non è nulla, di fronte all’agilità con cui si ignora la presenza di 1,2 milioni di elettori democratici certificati dalla preregistrazione.
- Non poteva mancare, naturalmente, l’idea fondamentale sottesa a tutta la pratica delle primarie. Per votare bisogna un po’ soffrire, bisogna mostrare di tenerci almeno un po’, bisogna rinunciare a qualcosa. Comincio a pensare, dopo che si conferma così diffusa l’idea degli “affettuosi scambi di sovranità” di morettiana memoria, che ci sia anche una componente antropologica, dettata dalla tradizionale adesione ai comportamenti e ai giudizi morali cattolici radicati nella cultura diffusa a cui i partiti della sinistra “storica” italiana non si sono mai sottratti, fino a farne parte del loro bagaglio identitario man mano che divenivano partiti popolari. Sicuramente, è indice un’idea dell’adesione al partito letteralmente “d’altri tempi”: il voto del “militante”, il voto partecipe, il voto di chi non pensa ad altro che a potersi esprimere all’interno del partito e che “vive” di politica e del suo esercizio, vale di più di quello della stragrande maggioranza degli elettori italiani e di ogni altro paese politicamente maturo e “secolarizzato”; il coinvolgimento dell’elettorato meno direttamente impegnato sul fronte politico, e quindi meno disposto al “sacrificio”, è un pericolo, non un passaggio fondamentale per consolidare la base di consenso del partito e per ascoltare le esigenze e le istanze di una società che ormai, strutturalmente, si sviluppa e vive fuori dei recinti delle vecchie appartenenze e quasi ad esse si contrappone consapevolmente. Anche qui, insomma, sarebbe necessario un po’ di aggiornamento sul comportamento politico contemporaneo, ma si preferisce continuare a pensare che, se gli elettori si comportano diversamente da come ci si aspetta ragionando come negli anni Cinquanta-Sessanta, sono gli elettori a sbagliare e a doversi adeguare al modo “giusto” di agire e di rapportarsi alle istituzioni partitiche.
- La conclusione di tutto questo è, in sostanza, che siano gli elettori a doversi adattare al partito, perché ne hanno bisogno, e che la loro partecipazione ai suoi processi decisionali sia un privilegio da guadagnarsi. La verità è esattamente opposta: stando all’art. 49 della Costituzione, un partito ha ragion d’essere esclusivamente come strumento attraverso il quale “tutti i cittadini” possano “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”; se un partito non serve a questo, non serve a nient’altro; svolgere questa funzione nei modi più efficaci, e con l’impegno a rendere il più semplice e confortevole possibile ai cittadini l’esercizio del loro diritto alla partecipazione, è la funzione vitale di un partito. In una parola, nel “mercato” della politica i cittadini sono dal lato della domanda, i partiti dell’offerta, come nella vita economica lo sono i negozi. Se io smetto di servirmi di un negozio, è il negozio a chiudere, mentre io posso continuare a esercitare la mia funzione di consumatore da un’altra parte.
Non pretendo che i politici comprendano i meccanismi della politica quanto me (del resto, uno psichiatra ha della schizofrenia una conoscenza decisamente migliore di uno schizofrenico), ma almeno non sarebbe male che si impegnassero ad assimilare alcuni rudimenti della realtà in cui si muovono.