Può darsi che nell’inverno del nostro scontento un motivo d’afflizione aggiuntiva possa derivare dallo svuotamento delle tasche per via di questa spaventosa crisi che chissà quando ci farà rivedere “ i raggi di questo sole di York” (Riccardo III, atto I, sc.I). E può darsi che un periodo di contrazione dei consumi possa essere visto con giubilo da chi non ha mai mancato, dal primo apparire dell’affluent society da noi, di fare il broncio pedagogico e penitenziale contro il maledetto consumismo.
Per quanto mi riguarda mai mi sono accodato a tutti coloro che con aria contrita si sono affannati a biasimare la tendenza al consumo degli italiani a partire dagli anni ’60, gli anni più felici di sempre, gli anni di “Carosello”, della canterina vetrina televisiva che invitava al consumo. Ah il consumismo, ah la perdita dei valori, ah il vagheggiamento di una società agropastorale! Balle! Anzi: peperepè!
Prima del grande e impetuoso sviluppo degli anni ‘50/’60, il cosiddetto “miracolo economico”, eravamo un Paese povero e disgraziato. Nella economia dei prodotti a chilometro zero (quella della penuria preindustriale non quella doviziosa, sfiziosa e postindustriale di oggi) si faceva la fame. Nelle montagne imperava il gozzo e l’incesto. Nelle campagne si sudava da bestie e i cani abbaiavano alla luna scambiandola per polenta (La luna e i falò). Nelle città la maggior parte della gente viveva in fetide case di ringhiera col cesso in comune sul ballatoio. E quelli del Sud, Gli alunni del sole (Giuseppe Marotta), scappavano a gambe levate appena potevano abbandonando i mandolini, il sole e il mare per poi poterli meglio cantare, ma da lontano, in qualsiasi luogo che non gli ricordasse l’afflizione, la penuria quando non la fame.
Perciò, benché consumatore parco, ho avuto verso il consumo, da “materialista spirituale” quale sono, sempre un comportamento responsabile ma mai denigratorio e sprezzante (non me lo potevo permettere). Era il mio mondo del consumo al quale anch’io accedevo finalmente, era il mio “edonismo immaginativo autonomo” per usare la bella espressione di Colin Campbell (The Romantic Ethic and the Spirit of Modern Consumerism, Oxford 1987) cioè un piacere che rilasciava intime soddisfazioni, enzimi di piacere, endorfine da supermercato: ah il mio primo e indimenticabile croccante cornetto !
Se c’è qualcosa che temiamo come la morte, oggi, è tornare a quei tempi andati, ecco perché siamo rimasti come paralizzati davanti ai colpi della recessione e degli altrettatanto violentissimi colpi del governo, di questo e di quello precedente, che ci hanno tramortiti. Non crediamo che sia probabile tornare a quell’Italia lì, ma la paura è tanta.
Socrate andava ogni giorno al mercato per constatare di quante cose non aveva bisogno (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi). Anch’io, mi ritengo un consumista svogliato. Ho una vecchia automobile, pochi vestiti, alcune paia di scarpe, vivo una vita media da uomo medio, tranne questa passione insana per il libri, fonte aggiuntiva di dolore, perché come dice la Bibbia: “Molta sapienza, molto affanno: chi accresce il sapere, aumenta il dolore” (Qo 1, 18).” Ma meglio questa afflizione autoimposta che una sciocca ed ebete mancanza di consapevolezza. Ma sono contento però che ci sia un mercato. E non faccio il broncio a chi consuma. Ognuno si impicca alla corda che vuole (io ho scelto i Meridiani) , anche chi tiene un tenore di vita al disopra dei propri mezzi, anche ricorrendo ai debiti. E ce n’è tantissimi: per esperienza lavorativa ho visto cose che vuoi umani…
Per conto mio sono per la massima: “di ciò che non abbiamo, facciamo senza”. Ma non amo il francescanesimo. Non sono per l’esaltazione della povertà evangelica (è un trucco di Gesù, da John Toland nel Nazareno ritenuto un “ebionita” ossia uno che viveva di espedienti in gruppi itineranti – spesso gli apostoli per sfamarsi andavano nei campi a raccogliere le spighe di grano- , come ce n’erano anche nella società greca: i cinici, per esempio, che vivevano però singoli e randagi senza lavoro e sostegno, come i cani, da cui il nome). E non sono ideologicamente avverso al mercato e al consumo.
Per dire, preferisco il Voltaire del Mondano (di cui vi allego i primi versi nella mia traduzione) – il filosofo che in quel poemetto cantava le lodi di una delle prime globalizzazioni e concludeva “ Le paradis terrestre est où je suis” – a un Rousseau con la testa sempre rivolta all’indietro in uno stato ferino di natura, che viveva come un orso solitario, privo di ogni conforto e predicava il ritorno a una punitiva società senza spettacoli, senza consumi, tanto che Voltaire sbottò in una lettera: «Signore, vien voglia di camminare a quattro zampe quando si legge la vostra opera»…
Rimpiangerà chi vuole il bel tempo andato
E l’Età dell’oro e il regno di Astrea,
E i bei giorni di Saturno e di Rea,
E il paradiso di Adamo e di Eva;
Io ringrazio la saggia natura
Che nascer benevolmente mi fece nell’epoca
Tanto denigrata dai mesti criticoni:
Questo tempo profano mi si addice.
Adoro il lusso e anche la mollezza,
Le arti d’ogni specie, ogni piacevolezza,
Il decoro, il gusto, gli ornamenti:
Il gentiluomo si nutre di tali sentimenti.
Dolce è pel mio cuore immondo
Veder tutt’ intorno l’abbondanza
Madre dell’Arti e dell’Opere benfatte,
Arrecarci dalla sua doviziosa fonte
Nuovi bisogni e nuovi piaceri.
L’oro della terra e i tesori dei mari,
Gli esseri che abitano nel vento,
Tutto serve al lusso, alla voluttà del mondo.
Ah quant’è felice quest’Età del ferro!
Il superfluo, cosa molto necessaria,
Il consumismo, viene detto con aria deprezzatoria, porta malessere e insoddisfazioni crescenti. Vero. Ma è da preferire questo tipo di malessere del benessere al malessere del malessere, di chi non ha nulla e nulla può desiderare. Meglio una fila per un Ipad che per un’aringa affumicata. Mai ho seguito i miti regressivi alla Rousseau o alla Pasolini. Sono nato in povertà e sono riuscito a fuggire fortunosamente da quel mondo inseguendo un sogno piccolo-borghese di lindore, di pulizia (nella lingua prima che nel vestiario o negli arredi), proprio come il cantore dei coatti romani, Pier Paolo Pasolini; lo scrittore che mentre inseguiva narrativamente pischelli borgatari quali il Rinzetta e il Riccetto che parlavano come le coatte di oggi, che vagheggiava una società povera, che assegnava, da intellettuale decadente gidiano qual era, chissà quale funzione di redenzione al sottoproletario di borgata, ebbene questo intellettuale costretto per un certo periodo della sua vita a vivere in borgata, vergava negli umidi quaderni piccolo-borghesi de La religione del mio tempo questi versi racchiusi nel capitoletto “Il mio desiderio di ricchezza”:
Prima di ogni altra cosa, una camicia candida!
Prima di ogni altra cosa, delle scarpe buone,
dei panni seri! E una casa, in quartieri
abitati da gente che non dia pena.
Da gente che non dia pena! Ossia lontano dagli sguardi dei borgatari che poi andava a incontrare, lui, su fiammanti automobili sportive. Adoro Pasolini – soprattutto quello critico, lo scrittore di Passione e ideologia e Descrizioni di descrizioni (il migliore secondo me) – e dico questo per ripararlo subito dai colpi che potrebbero dargli coloro che usassero le mie parole contro di lui. Ma come dice Sciascia: contraddisse, e si contraddisse. È l’intellettuale che più di ogni altro scrisse contro il consumismo, parlando di una alluvione antropologica solo perché cominciavamo ad addentare qualche buondì motta, lui quel poeta che si dilungava su acquisti Biedermeier, da massaietta piccolo borghese con aspirazioni di lindore filisteo. Negli Scritti corsari si dilungò sulle mutazioni antropologiche degli italiani, e vagheggiava recensendo le poesie Un po’ di febbre di Sandro Penna la società povera e debilitata dell’Italia degli anni Trenta.
Se Pasolini è uno scrittore di sinistra (seppur una sinistra reazionaria, com’è stato detto) allora è il destinatario naturale di questa osservazione di Michael Walzer (L’intellettuale militante, Il Mulino 1988): «Non è mai stata una buona idea per la sinistra quella di collocarsi in netta contrapposizione ai valori della gente comune. L’attacco ai beni di consumo è il punto estremo cui può arrivare l’ostinazione dei critici della società, poiché la gente, privata delle cose, è resa libera per una politica non più di quanto siano resi liberi per l’arte gli artisti che fanno la fame. La privazione è privazione; non ci si può sottrarre al mondo del guadagno e della spesa semplicemente non guadagnando e non spendendo. La vita comune ha le sue esigenze, non soltanto di ciò che è assolutamente necessario, ma anche di ciò che è puramente desiderabile».
E adesso, se vi è rimasto qualche spicciolo in tasca e se volete sentire ancora la gradevolezza delle endorfine del consumo sulla vostra pelle: enjoy it, ci sarà tempo per il penitenziagite!