In un lungo articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 4 dicembre (La strana pretesa dei liberisti. Chiedere alla sinistra di fare la destra), Massimo Mucchetti rimproverava gli intellettuali liberisti per la pretesa di volere che la sinistra facesse la destra, abbracciando politiche economiche come usa oggi dire mercatiste.
Piuttosto, sostiene Mucchetti, perché quegli intellettuali non si prendono la briga di capire perché il luogo elettivo delle loro ricette, ovvero la destra, si dimostri così scarsamente recettivo?
Non siamo intellettuali, ma certo rivendichiamo d’esser liberisti e quindi una risposta proviamo a fornirla.
Dubitiamo fortemente che il liberismo, ovvero la declinazione economica del liberalismo, appartenga ad uno schieramento predefinito. E questo non perché ci piaccia assai poco la pseudo-destra italica, ma perché così ci pare di apprendere dalla storia più recente.
Ci vengono in mente, soprattutto, le belle pagine scritte da un giurista indiano, Patrick Atiyah, in un volume che ormai ha più di trentt’anni: The Rise and Fall of Freedom of Contract (L’ascesa e la caduta della libertà contrattuale). Vi si legge come la libertà contrattuale, strumento principe ed elettivo degli avvocati del liberismo, abbia costituito, in oltre due secoli e mezzo di sviluppo storico e politico inglese, uno swinging pendulum (un pendolo oscillante) tra la destra e la sinistra inglesi, tra tories e whigs. Liberista fu senza dubbio Richard Cobden che costituì, nell’800, la lega per l’abolizione delle Corn Laws per combattere contro i dazi all’importazione del grano. Liberista fu il grande premier inglese Gladstone, il modello di Cavour. Liberista divenne Bertrand Russell, che identificò nel conflitto protezionismo-liberismo il conflitto tra l’eredità di Bismarck e quella di Gladstone.
E nonostante una storiografia approssimativa continui a dipingere il presidente americano Hoover, capo dell’amministrazione repubblicana nel 1929, come un liberista, il suo avversario alle elezioni presidenziali Roosevelt nel 1932 si presentò agli elettori accusando Hoover di aver condotto il paese sulla via del socialismo (secondo il giudizio del candidato alla vicepresidenza democratica John Nance Garner). Hoover era stato, tra l’altro, l’artefice dell’emanazione della legge di riforma nota come Smoot-Hawley Tariff (1930), che aveva innalzato le barriere commerciali americane, con conseguenze esiziali per l’economia statunitense appena colpita dalla crisi del ’29.
Che poi l’amministrazione Roosevelt sia divenuta famosa per l’interventismo economico è un altro paio di maniche.
E l’Italia, nonostante quanto ricordato da Mucchetti, non fu da meno. Pure nelle file della gloriosa tradizione della Destra Storica avevano convissuto le salde convinzioni liberiste di un Cavour e, dopo di lui, le altrettanto ferme posizioni stataliste di uno Spaventa.
Il novecento non sarà da meno. Liberista sarà Gaetano Salvemini che non si trattenne mai dalla critica del sindacalismo italiano, buono per i pasciuti operai del Nord Italia ed affamatore dei cafoni meridionali. Ma si sa che Salvemini, che si proclamò sempre socialista non per fedeltà all’abbandonato marxismo ma per afflato umanitario, a sinistra non è mai stato ben visto, a causa del suo proclamato anti-comunismo. La tradizione di un liberismo non conservatore troverà, ancora, sfogo tra le eleganti colonne del Mondo di Pannunzio.
Insomma, caro Mucchetti, non è affatto vero che le idee liberiste siano buone solo per esser seminate nel terreno della destra. E questo a prescindere dall’accidente della storia che vuole che oggi il terreno della destra italica sia completamente inaridito.
La questione, invece, è un’altra ed è intimamente legata agli strumenti, ai mezzi coi quali un liberista intende fornire risposta alle esigenze di una società. E su questo, lo consentiamo, differiamo dai socialisti, che giudichiamo sul punto conservatori del pari dei pretesi conservatori della destra politica.
Per i socialisti all’individuo resta punto o poco da fare se non partecipa attivamente a qualche gruppo collettivo, sia esso il patronato, il sindacato, il partito. Da solo l’individuo poco può, unito ad altri, e delegando ad altri, può aver speranza di successo. Lo stato, così, diviene grazie alla guida di un partito socialista, artefice attivo dell’emancipazione e della soddisfazione dei bisogni e poi financo dei desideri del cittadino. Ovviamente, per riuscire in ciò, il cittadino deve consentire, politicamente e socialmente, ad una significativa cessione della propria sovranità su se medesimo in favore di questi soggetti collettivi. Il cittadino è posto inconsapevolmente sotto tutela. Troppo prodigo e pericoloso per spendere o investire da sé, viene forzato a trasferire buona parte (troppa) di ciò che guadagna non per contribuire a quei beni pubblici indivisibili cui nessun liberista serio si è mai opposto, ma per far decidere a qualche mezzamanica della burocrazia statale il miglior impiego, il miglior investimento, colpevolmente ignaro che le spese pubbliche si sostituiscono sempre alle spese private, come ricordava l’abrasivo Bastiat.
Per noi liberali non monchi, e quindi liberisti, resta, invece, «evidente che ognuno, nella sua condizione locale, può giudicare meglio di qualsiasi uomo di Stato o legislatore quale sia la specie d’industria interna che il suo capitale può impiegare […]. L’uomo di Stato che dovesse cercare di indirizzare i privati relativamente al modo in cui dovrebbero impiegare i loro capitali, non soltanto si addosserebbe una cura non necessaria, ma assumerebbe un’autorità che non solo non si potrebbe affidare tranquillamente a nessuna persona singola, ma nemmeno a nessun Consiglio o Senato, e che in nessun luogo potrebbe essere più pericolosa che nelle mani di un uomo abbastanza folle da ritenersi capace di esercitarla» (A. Smith, La ricchezza delle nazioni, 1776, trad. it. Torino, 584).
Ciò con buona pace dei novelli propugnatori di una nuova politica industriale, che si apprestano a rimettere in sesto la serra calda dei sussidi di stato, in cui coltivare o far sbocciare una qualche forma di industria che all’aria della concorrenza verrebbe probabilmente spazzata via.
Qui si è poi annidato un grave errore, una colpa di molti neofiti del mercato e della libertà economica, colpa che a noi oggi rimasti in quattro gatti tocca – volentieri – espiare.
La nostra difesa del mercato e della libertà economica non ha nulla a che vedere con la perfezione del mercato. Un onesto liberale non può che fare ammissione di imperfezione e propugnare, come unico metodo didattico, l’errore.
Il mercato è infatti l’unico strumento collettivo che è in grado di fornire una risposta, approssimativa fin che si vuole, all’ignoranza. Ogni socialista, che lo riconosca o meno poco importa, deve postulare, per poter giustificare il proprio intervento di pretesa riforma, la perfetta conoscenza dei presupposti e delle conseguenze della propria azione.
Con questa abitudine fa il paio la pretesa di voler trovare una spiegazione per tutto, una legge unica di interpretazione della realtà, una chiave capace di aprire ogni porta dell’esistenza e dell’esperienza umana. E siccome le leggi del mercato non paiono soddisfacenti, si pensa di poterle facilmente modificare, alterare, correggere, convinti di poter indicare fini, scopi, mezzi ad una istituzione complessa.
Quella del socialista è la presunzione, per dirla con Einaudi, di essere il solo capace di rigenerare il mondo. L’ignoranza del liberale, che esige quindi la libertà anche nella sfera economica, è figlia della convinzione, frutto dell’esperienza, che «l’unica, vera garanzia della verità è la possibilità della sua contraddizione, che la principale molla del progresso spirituale e materiale è la possibilità di cercare e di adottare nuove vie senza il consenso dei dottori dell’università di Salamanca, senza attendere le direttive delle “superiori autorità”» (La riforma sociale, sett-ott 1918, 453-455).
Il nostro lettore ci obietterà che, nonostante i buoni propositi e nonostante i nostri buoni auspici le nostre schiere sono alquanto sparute. Vero, verissimo. Sempre meglio prender atto di questa realtà, che vedersi imputati al tribunale della storia del crimine di aver messo a soqquadro il mondo, armando l’avidità, corrompendo e inoculando la crisi di cui siamo testimoni.
Ma allora, ci si limiti a dire che i liberali non stanno né a destra né a sinistra, perché tanto dall’una e dall’altra parte sono come i cani in Chiesa: accolti con iniziale simpatia ma poi invitati presto ad uscire prima che occupino per i bisogni una qualche colonna della navata!
Ce ne stiamo volentieri altrove, senza rinunziare al nostro messaggio ed all’ambizione di convincere che quello che proponiamo non è il cavallo di Troia della finanza speculatrice, o di qualche altro potere forte. Pretendendo di non esser arruolati d’ufficio in una qualche schieramento, come ha fatto il pur ottimo Mucchetti.
Bersani, nel celebrare il suo successo alle primarie ha rivendicato il profumo della sinistra. Nulla da dire, ciascuno si scelga le essenze che vuole. Ci lascino dire, però, che noi cominciamo a sentire puzzo di statalismo.