L’8 dicembre scorso sono state condannati 22 imputati per una pena complessiva di 215 anni dal tribunale di Venezia per i reati di usura, associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, sequestro di persona, minacce.
É la seconda volta dal caso della mala del Brenta di Felice Maniero che in Veneto viene contestato e provato il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. Le condanne scaturiscono dal processo nato in seguito all’operazione “Aspide”, che proprio su questo blog avevamo riportato in termini di analisi riguardando il ‘modus operandi’ della mafia in Veneto, con una riflessione del Sostituto Procuratore della Direziona Nazionale Antimafia Roberto Pennisi.
Un modello che mira più alla ‘delocalizzazione’ che non a una ‘colonizzazione’ con i connotati tipici del controllo del territorio più presenti in Lombardia. Il punto debole appare sempre quella saldatura di interessi tra imprenditoria e criminalità organizzata.
Una saldatura che si compie sempre più spesso non solo in ottica intimidatoria ma di incontro tra domanda di illegalità da parte di una fetta di imprenditoria e di offerta di servizi che la criminalità organizzata è in grado di mettere sul mercato.
Poi è chiaro che occorre riflettere sul rapporto e sulla capacità di denuncia (e conseguente protezione dei denuncianti) sul territorio come fa Gabriele Licciardi su Il Mattino di Padova, e questa riflessione è acuita dall’elenco delle parti civili presenti al processo: su 60 vittime solo 8 si sono costituite al processo e richiesto danni al clan che intimidiva con calibro 9 in bella vista quando i pagamenti tardavano ad arrivare.