Tra gli aspetti singolari del dibattito pubblico nel nostro paese c’è la propensione a discutere animatamente di cose impossibili. Tanto per fare un esempio, sono anni che si parla dell’abolizione del valore legale del titolo di studio. C’è chi dice che questo “provvedimento” sarebbe la panacea di tutti i mali della nostra università. Altri, con altrettanta veemenza, lo descrivono come il colpo di grazia per l’università pubblica. La questione è considerata così importante che di recente è stata persino oggetto di una consultazione on-line organizzata dal Ministero della pubblica istruzione (dei cui risultati, giustamente, non si è saputo nulla).
Eppure, non sarebbe molto difficile scoprire che il “provvedimento” di cui si parla è impossibile. Non politicamente, ma legalmente. Non si può abolire ciò che non esiste. Che le cose stiano in questo modo l’aveva mostrato molti anni fa Sabino Cassese, oggi giudice della Corte Costituzionale, uno dei più illustri amministrativisti italiani. Dopo di lui l’hanno ribadito diversi autorevoli giuristi che hanno spiegato che:
parlare di abolizione del valore legale del titolo di studio di per sé è un non-problema, perché quell’espressione si riferisce ad un oggetto non definito e non identificabile: non esistono dal punto di vista giuridico leggi che chiaramente conferiscano questo supposto valore legale.
La citazione è tratta da un’intervista del Sussidiario a Carla Barbati pubblicata lo scorso aprile. Sono sicuro che da allora saranno stati pubblicati decine di interventi, interviste e dichiarazioni di intellettuali, politici e imprenditori in cui si invoca l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Una cosa simile sta accadendo con “la candidatura di Mario Monti”. Anche in questo caso non sono mancate alcune voci che hanno fatto notare che si tratta di un oggetto impossibile. L’ha fatto, per esempio, il Presidente della Repubblica, ricordando che un senatore a vita non può candidarsi, perché fa già parte (a vita, per l’appunto) di una delle camere. Potrei sbagliarmi, ma credo che le dimissioni di un senatore a vita non avrebbero precedenti e non sarebbero nemmeno previste. Presumibilmente perché le persone nominate (o di diritto, come gli ex Presidenti della Repubblica) sono normalmente piuttosto anziane. Certo la nomina di Monti da parte di Napolitano è stata anomala. Ma sono sicuro che nessuno dei due l’abbia intesa come una soluzione provvisoria. L’idea era di mettere Monti in condizione di avere un ruolo politico senza doversi candidare e essere eletto.
Qualcuno potrebbe dire che se Monti rimane un senatore a vita, nominato quindi dal Presidente della Repubblica, egli non avrà quella legittimità che solo il voto popolare potrebbe conferirgli. Un’obiezione cui si può rispondere ricordando che la nostra costituzione, e quelle di altri paesi democratici, prevedono diverse cariche e istituzioni la cui legittimità non dipende direttamente da un voto popolare. Anche lo stesso Presidente della Repubblica non è eletto dal popolo. Oltretutto, i sostenitori dell’idea che Monti dovrebbe “candidarsi” sottovalutano probabilmente il tempo che ci vorrebbe per individuare una procedura costituzionalmente accettabile per farlo. Casi del genere si sono verificati per membri della House of Lords nel Regno Unito, dando luogo a complesse controversie giudiziarie. La più nota è quella che vide coinvolto Tony Benn, un leader dell’ala più radicale del Labour, che pretendeva di rinunciare al suo titolo nobiliare per presentare la propria candidatura ai comuni.
Un’alternativa di cui si parla in queste ore è quella di un endorsement da parte di Monti a una lista che si riconosca nella sua leadership politica senza che per questo egli debba candidarsi. In questo caso non ci sarebbero ostacoli legali. Tuttavia, ce ne sono, e di non trascurabili, sul piano politico. Ve lo immaginate Monti a fare un dibattito televisivo con Berlusconi, Bersani e chissà chi altro? Io francamente no. Fino a ora il Presidente del Consiglio uscente ci ha offerto performance più che dignitose nel corso di interviste formali da parte di interlocutori rispettosi del suo ruolo istituzionale e della sua autorevolezza personale. In campagna elettorale le cose non funzionano in questo modo, e ci sono ottime ragioni per pensare che questa non sarà una campagna facile. Inoltre, Monti, come mostrano le sue dichiarazioni pubbliche, i suoi scritti e le sue interviste, non ha un rapporto facile con la politica. Ne parla costantemente come qualcosa di diverso dal lavoro che lui e i suoi ministri tecnici avrebbero svolto in questi mesi. Si potrebbe dire – e io ne sono convinto – che si tratta solo di un espediente retorico. Che peraltro aiuta forse Monti, ma non aiuta la politica italiana a recuperare la dignità di cui ha bisogno. Ma le cose stanno in questo modo, e non mi pare che sia probabile che cambino nell’immediato futuro.
Lasciando da parte l’altra ipotesi fatta in queste ore, quella di una lista “agenda Monti” che Monti non autorizza e non sconfessa, che ci farebbe ridere dietro il mondo, la soluzione politicamente più ragionevole è quella indicata con la consueta lucidità da Napolitano: che Monti attenda sereno il risultato elettorale nel suo studio a Palazzo Giustiniani, dove il vincitore non potrà fare a meno di andare a cercarlo.