Racconto spesso, troppo spesso, di vertenze e disagi lavorativi (e sociali) della mia Regione, del mio Paese. Eppure solo oggi, mi rendo maldestramente conto di aver quasi sempre messo da parte l’idea di descrivere la realtà precaria del lavoro che ho scelto di fare “da grande”: il giornalista. Un po’ per timore della bestia dell’autoreferenzialità, malattia ormai (s)venduta anche dai peggiori addetti ai lavori, ed un po’ per esercizio spasmodico al disuso della prima persona. Perché raccontare la storia di uno, quando oltre il proprio naso vi sono almeno mille storie affamate di un narratore? Anche se mediocre o privo di grandi mezzi, sia chiaro.
Una signora giornalista con la quale ho avuto la fortuna di lavorare, oltre ad insegnarmi la bellezza nella spartana onestà della cronaca, mi ha sempre posto una domanda durante molte delle riunioni di redazione condotte assieme, quasi a ricordare un mantra di zemaniana memoria: “Ciò che stai scrivendo avrà un’utilità per qualcuno?”. Apriti cielo (e cervello). Domande tali, che nella semplicità non lascian scampo, da forzata attività quotidiana del primo mattino possono diventare salvagente naturale dell’intelletto. Per alcuni. Gli altri prendono il primo treno dell’ego cavalcante a disposizione, sempre la tratta sia ancora assicurata in tempi di spending review.
Ed è forte di questo artificio di salvataggio che voglio provare a raccontarvi però, di giorno in giorno, la mia piccola esperienza sul campo. Certa di poter trovare in molti di voi, invischiati da anni nel medesimo gomitolo di ovvietà e porte in faccia, precariato e anestetici dell’ambizione, compagni e colleghi con delle risposte sagaci. Una seduta di psicanalisi collettiva insomma, non richiesta e dall’esito dubbio.
Ei fu la Notizia. Igor Man, pseudonimo di Igor Manlio Manzella, giornalista de “La Stampa”, scrisse: “Cosa è una notizia, Signor Direttore, cos’è una notizia per un giornalista? Dico: per un giornalista che la riceve, da una parte del mondo qualsiasi, e che la deve passare, che deve leggerla, cioè giudicarne l’importanza, titolarla, mandarla a comporre”. Fosse semplice.
Nella mia inesperienza non saprei ovviamente rispondere autonomamente, se non abbozzando riferimenti ai Maestri, basti pensare alle pagine di guerra di Indro Montanelli. Eppure, nonostante i pochi anni alle spalle di lavoro (ma i non così pochi da lettrice), ho imparato delle qualità necessarie a fare la notizia. Non solo sufficienti.
Essa è prima di tutto liquida, relativa e in divenire: tutto fuorché un monolite di saccenza da porre in una teca e contemplare. Aaron Sorkin, giusto per citare un esempio, ha spesso sollevato il dubbio all’interno di una delle sue ultime creature, dedicata al mondo dei media, “The Newsroom”: è il giornalista che crea la notizia? Un taglio stilistico o una scelta sintattica precisa danno, certamente, un peso ed una forma diversa all’informazione. Responsabilità quindi, non solo le cinque “W” del giornalismo anglosassone (Who? Where? When? What? Why?) : la notizia dovrebbe essere anche portatrice sana di responsabiltà.
Il paterno consiglio che sa di perentorio. “Dai questo indirizzo al messaggio”, “Questo nome magari non farlo”, “Ripeti più volte di questa persona”, “Non precisare se per assoluzione o prescrizione”, “Decontestualizza il fatto”. Un frasario al quale, mi rendo conto, manca ancora moltissimo: quante volte, al desk o sul campo, abbiamo sentito questi perentori consigli. Dove non è detto che notizia e verità coincidano – “Solo dove le condizioni sociali assumono una forma riconoscibile e misurabile, il corpo della verità ed il copo della notizia coincidono”, scrisse Walter Lippmann – la notizia richiede anche una busta bella grande di coraggio, dove è molto probabile alleghiate anche una lettera di dimissioni. E nella quale potrete finalmente – pensate che bello – scegliere voi stessi l’indirizzo da dare al messaggio, i nomi da fare, contestualizzare o decontestualizzare il fatto a vostro piacimento. Manco fosse il saggio finale del vostro corso preferito di scrittura creativa.
Io, garantito, ci sono passata. E a tal proposito vi racconto un aneddoto. Una volta proposi di seguire e raccontare la vicenda di alcuni operai da diversi mesi disoccupati ed abbandonati dalle istituzioni. Una pagina molto importante dell’economia in crisi della nostra Regione e che, ancora oggi, costringe diverse famiglie alle restrizioni più denigranti. Mi fu risposto, tra il sornione e lo stranito: “Se proprio devi. Ma non intervistare gli operai: le loro opinioni non ci interessano”. E come questo, nel bagaglio, avrei altre decine e decine di esempi di amichevoli perentori consigli. Ovviamente tutti gratuiti.
Dove per gratuito è da intendersi, il mio di lavoro. Non quello del datore.
No entiendo. Cos’altro la notizia dovrebbe essere? Certamente “comunicabilità”. La capacità di sintesi (efficace) è virtuosismo del pensiero e della dialettica al pari della paratassi.
Anch’io vittima del fascino delle frasi inzuppate tra subordinate e linguaggio aulico, trovo difficoltà nella dieta all’inglese. Regime alimentare da sempre consigliatomi dal mio ex professore di filosofia: “Frasi brevi, all’inglese. Soggetto, predicato e se ci scappa, un complemento oggetto”. Gli Inglesi, tralasciando i discreti cappellini della Regina ed il fascino delle tazzine con il faccione di Carlo e Camilla, trasudano infatti brachilogia, tutta da copiare: “Brachilogia deriva dalle parole greche brachys (breve) e logos (discorso). Il termine si riferisce infatti a un parlare conciso e sentenzioso. Riferendosi alla dialettica, Platone sostiene che essa preveda un incontro di anime, interventi brevi e proposizioni corte”.
Esprimere con dieci parole, quello che magari ho provato ad esprimere io con un articolo di n righe. Troppe, lo so. Non dimenticando però, alle volte, di non scomodare una notizia giusto con dieci righe se ne vale venti. In alcuni casi, infatti, l’informazione va trattata come il vestito buono della domenica. Con il quale mica fai giusto il giro dell’isolato, punti semmai alla processione di tutte le case di tutti i parenti.
À bientôt.