Chi si interroga sulle prossime mosse del premier uscente, dovrebbe ricordare come il suo giudizio sui partiti e la politica sia stato spesso tranciante. Mario Monti nel decidere quel che sarà il suo prossimo futuro dovrà fare i conti con le idee abbastanza chiare che ha espresso pubblicamente su quel che è stato il passato e il presente della politica italiana. Senza andare troppo indietro per ritrovare sue analisi severe sul Corriere della sera o in altre sedi possono bastare quei non rari momenti recenti in cui ha espresso con chiarezza il suo punto di vista. Ciò che accomuna tutte le prese di posizione è la certezza che i partiti non godano del favore popolare. «Questo governo ha un largo seguito nel paese – disse a Tokio nello scorso febbraio – e i partiti no». Il «largo seguito del governo» è scemato da allora ma il giudizio popolare sui partiti è rimasto eguale a giudicare dall’alto numero di astensioni fotografato dai sondaggi.
Ne è ancora convinto Mario Monti. A ottobre il premier, in un convegno romano, disse: «La percezione di quel che sta facendo il governo non è rosea, tuttavia il livello di gradimento è più elevato rispetto a quello dei vari partiti». A novembre ammonì la politica con queste parole: «Meno attenzione a leadership e organigrammi e più ai contenuti». Queste frasi possono essere confrontate con i giudizi severi espressi da ministri come Passera e Riccardi e con le considerazioni brucianti circa lo scollegamento dei partiti con i territori pronunciate dal ministro Barca dopo i fischi ricevuti dai minatori del Sulcis. A far da cappello a queste prese di posizione c’è poi lo sfogo che in un aula del parlamento portò un esasperato Monti a dire ai suoi critici della stessa maggioranza che lo sosteneva: «Ci avete chiamato voi perché la verità è che eravate paralizzati».
Ma è in un libro recente che i giudizi di Mario Monti vengono espressi con la consapevolezza di una teoria politica. «A livello europeo- ha scritto il premier – la richiesta di più politica risulta alquanto sconcertante…L’esperienza insegna che più politica tante volte significa meno rigore e più problemi: i giochi della politica minano la fiducia nelle istituzioni comuni (europee, ndr), gli scambi di favori tra partiti alleati e le cortesie fra vicini possono portare ad accogliere nell’Eurozona uno stato che non soddisfa del tutto i criteri richiesti, a chiudere un occhio su un deficit pubblico o ancora a ignorare una pericolosa bolla immobiliare». E continua: «Tale compiacenza si paga a caro prezzo. Checchè ne dicano i populisti, il compito dei governi non è quello di seguire ciecamente le pulsioni dei popoli… Non si tratta, come vanno ripetendo alcuni, di costruire un’Europa sociale, concetto nebuloso in una Unione così eterogenea, né di difendere i diritti acquisiti come se si trattasse di principi immutabili».
Si potrebbe continuare con il florilegio delle frasi e dei concetti che caratterizzano la concezione del mondo del premier dimissionario. Quel che appare chiaro è la sua sfiducia nei partiti esistenti, la consapevolezza, che espone con ferocia, del loro scollamento e della loro impopolarità, il rifiuto del primato della politica considerata fonte di confusione e di mal governo. Con questo bagaglio di idee è possibile che Monti decida di scendere in campo ma dovrebbe farlo alla maniera di De Gaulle e non a capo di uno schieramento di personalità che traggono forza dalla loro storia nella prima repubblica. Il Monti-pensiero lo mette anche in contrasto assai netto con la sinistra e la sua idea di un’Europa sociale facendolo esponente di un mondo tecnocratico e conservatore con cui Bersani può dialogare ma di cui non è naturalmente alleato.
Tutto questo per dire che il Monti politico è alternativo a tutti gli schieramenti esistenti. Se scende in politica deve ambire a una vocazione maggioritaria. Se deve mettersi a capo di un partito del 15% è bene che si conservi come riserva della repubblica. Idee così impegnative e urticanti non stanno bene in un vestito stretto, meglio se in un abito istituzionale.