A luglio 2012, Marc Ambider di GQ scriveva che il secondo mandato di Barack Obama sarà centrato sulla guerra alla droga. Si vedrà dal 21 gennaio 2013. Certo, lo chiedono al presidente i capi di Stato del Sudamerica, che hanno cominciato a legalizzare la vendita di certe sostanze. Lo chiedono le vittime della narcoguerra messicana, che in sei anni ha prodotto 60mila vittime. Lo chiedono i tanti critici del Plan Colombia, del Plan Merida e delle altre forme di cooperazione con i Paesi inquinati dal mercato della droga. Prima di tutto, la cocaina.
Quand’era senatore, Obama non ha risparmiato critiche all’indirizzo della Casa Bianca, di cui l’inquilino, all’epoca, era George W. Bush. “La mancanza di prove affidabili, di miglioramenti documentati nella lotta alla droga e nel neutralizzare i paramilitari è deludente, considerando i miliardi di dollari che il Congresso americano ha stanziato per finanziare la proibizione e lo sradicamento della droga dal 2000″, scriveva nel dicembre 2005 il United States Senate Committee on Foreign Relations (SFRC), di cui faceva parte anche l’attuale presidente degli Stati Uniti. Il testo consigliava all’amministrazione “di sviluppare e coordinare misure affidabili dei risultati, per misurare accuratamente il flusso di cocaina in entrata negli Stati Uniti. Una volta compiuto ciò, sarà possibile per tutti la misurazione accurata di successi o fallimenti”. Peccato che neanche l’amministrazione Obama abbia ascoltato queste indicazioni.
I rapporti ufficiali del Dipartimento di Stato indicano 700 tonnellate come la stima di produzione mondiale di cocaina. Le tonnellate sequestrate, però, sono state 774: qualcosa non torna. Tanto più che alla discesa della produzione corrisponde invece un aumento dei sequestri: il 2011 è stato l’anno dei record e il 2012 si stima che non sarà da meno. “Reputiamo che il traffico di cocaina dalla parte settentrionale dell‘America Latina al resto del mondo sia tra le 1.200 e le 1.400 tonnellate all’anno. Di queste, il 60% circa va verso gli Stati Uniti ma una parte sempre maggiore, più del 30 %, è diretta in Europa. Una buona parte passa dall’Africa e poi altri mercati, anche in Medio Oriente”. Lo ha detto nel 2010 Douglas Fraser, ex generale della Southcom, la forza militare statunitense che opera in Centro e Sud America. Dopo quarant’anni di duro servizio, Fraser il 19 novembre ha lasciato il suo incarico, con tutti gli onori del caso. Ma quella sua dichiarazione resa al Foreign press office non è stata inserita nei rapporti ufficiali del Dipartimento di Stato. Nessun ufficiale gallonato, da allora, si è più azzardato a fornire i numeri del traffico mondiale di cocaina. Ed è per questo che molti studiosi reputano “politiche” le stime di Washington.
(Cartina 2: tratta da Mafia Export, di Francesco Forgione, Dalai editore 2009)
Contraddizioni. “Penso che i dati della produzione siano sbagliati – afferma Antonio Nicaso, studioso della criminalità organizzata internazionale -. Le forze dell’ordine stimano di fermare tra il 10 e il 15% della cocaina circolante, difficile che la produzione annuale possa essere così bassa”. Gli stessi dubbi animano Giovanni Castrignanò, fino al 2010 a capo del Gruppo operativo antidroga di Catanzaro: “L’aumento dei sequestri, per la mia esperienza, è direttamente correlato all’incremento dei traffici di cocaina, almeno verso l’Italia e l’Europa. È un indice, in buona sostanza, della floridezza del traffico”. La stessa Casa Bianca, nel documento programmatico National Drug Control Strategy ammette che la Panama express program (Panex), l’agenzia interforze che si occupa di “distruggere e smantellare i maggiori traffici di droga marittimi delle organizzazione di stanza nell’America centro meridionale”, non ha raggiunto l’obiettivo di fermare il 32% della cocaina circolante. Le 193 tonnellate intercettate dalla Panex sono solo il 25% del totale, che invece è pari a 773 tonnellate. Nella sola area di competenza della Panex.
Il fiume di droga sorge dai cristalizaderos, i laboratori della cocaina di Colombia, Bolivia e Perù, i tre Paesi dove si produce lo stupefacente. Secondo le stime dei flussi disseminate nei rapporti del Dipartimento di Stato negli ultimi tre anni, dalla Colombia transitano in Venezuela tra le 161 e le 212 tonnellate e da lì viaggiano verso il resto del mondo. Il ministero dell’interno del Costa Rica ha invece riscontrato nel 2011 un flusso di cocaina colombiana di 900 tonnellate, in gran parte in direzione Messico- Stati Uniti. La droga peruviana e boliviana passa invece dall’Argentina (70 tonnellate), dal Paraguay (circa 35 tonnellate), dal Cile e soprattutto dal Brasile (anche se non è specificata nessuna proiezione). Dall’Ecuador, hub di transito per i quattro continenti, partono carichi di cocaina dalla provenienza mista per un totale di 120 tonnellate. Secondo Antonio Nicaso l’Asia diventerà per le organizzazioni criminali il luogo dove investire per mantenere alta la domanda di droga: “Ci saranno circa 250 milioni di cinesi che si apriranno ai consumi occidentali nei prossimi anni. Arriveremo ad avere il 15 % della popolazione mondiale che sniffa cocaina”. Al contrario di quanto affermano i rapporti ufficiali, secondo cui il consumo globale della polvere bianca è in diminuzione.
Verso l’Europa. La ‘ndrangheta controlla le rotte verso l’Europa, i cartelli colombiani quelle verso gli Stati Uniti. Per l’organizzazione criminale italiana, il narcotraffico è un business da 29,5 miliardi di euro l’anno. Quattro rotte conducono al Vecchio Continente. La prima alimenta i mercati del Nord Europa, entrando dal porto di Rotterdam e di Anversa, oppure dagli scali aeroportuali di Brema e Costanza, in Germania. La seconda transita in porti e aeroporti spagnoli, italiani e portoghesi: da Valencia a Barcellona, da Genova a Gioia Tauro, da Lisbona a Oporto. Poco più a est, la rotta dei Balcani, ultima nata nello scacchiere dei traffici internazionali di cocaina. Qui la ‘ndrangheta si spartisce il mercato con la mafia serbo montenegrina, capace di fornire droga anche a domicilio, evitando ai corrieri italiani pericolosi spostamenti. La quarta rotta è stata “scoperta” nel 2008: un ponte che collega Africa ed Europa meridionale. Secondo l’agenzia antidroga delle Nazioni Unite, trasporta 21 tonnellate di cocaina all’anno: un dato ridicolo in confronto ai sequestri europei. Dai porti dell’Africa occidentale, la droga risale il Sahara verso nord. Segue la stessa rotta dei trafficanti di uomini, oppure cerca uno sbocco sul Mediterraneo in Marocco e in Algeria. Oppure vira verso sud, Johannesburg e Città del Capo, e risale la costa orientale dell’Africa, passando per Kenya ed Etiopia. Questa quota è destinata al consumo interno o ai mercati mediorientali.
Verso gli States. La maggior parte della “neve” è sniffata in Nord America. Il 95% della cocaina che circola negli Stati Uniti è stata prodotta in Colombia. Entra negli Stati Uniti via terra o via mare, dall’Oceano Atlantico e Pacifico. Nel primo caso, corre lungo la dorsale dell’America Centrale e approda in Messico, la porta d’ingresso degli States. “Non esiste alcun dato riguardo a quanta droga passi dal Messico agli Stati Uniti – spiega Sylvia Longmire, ex agente speciale dell’areonautica oggi consulente e analista della guerra ai cartelli messicani -. Le autorità credono d’intercettarne più o meno un decimo“. Quel che è certo è l’ammontare dei sequestri nel 2011: sei tonnellate in Messico, sessanta negli Stati Uniti.
Via mare, secondo la Guardia Costiera nel 2011 sono passate 655 tonnellate, destinate al solo mercato Usa. Un dato che da solo mette in crisi le stesse stime del Dipartimento di Stato. Tra i punti di transito, il più importante è l’arcipelago caraibico, da cui si smista parte dei carichi verso Africa ed Europa.