Il testo riproduce la prefazione a “La leggenda del santo petroliere”, di Maurizio Verdenelli, Ilari editore, 2012.
Curioso il titolo di questo libro.
Un titolo veritiero per un verso, forse ingannevole per altri.
La vita di Enrico Mattei ha un che di miracoloso, come l’Andreas della leggenda del santo bevitore, a cui il titolo chiaramente si ispira.
Però Mattei non era un petroliere, perché di petrolio non ne vide l’ombra, in terra patria. Seppe fare del gas e di altre risorse l’oro nero d’Italia, ma fu, come si dice, un petroliere senza petrolio.
E, almeno a parere di chi scrive, Mattei non era nemmeno un santo.
Piuttosto, fu un “new Cesar”, come lo definì il New York Times nel 1960, o – detto in tono più sprezzante e malizioso – fu l’Enrico Augusto del ritratto di Guareschi.
Personaggio troppo epico per essere solo un santo, troppo potente per essere solo un buono, troppo entusiasta per essere solo un potente, egli è il simbolo dell’economia italiana, anche di quella odierna, o meglio ne è stato al contempo il figlio e il progenitore.
Quando Verdenelli mi ha chiesto di scrivere una prefazione a questo libro, l’ovvia mia domanda è stata cosa c’entrassi io con Mattei. Non solo non l’ho conosciuto, come molti ancora possono vantare, ma sono nata 18 anni dopo la sua morte, già tardi per essere sensibile alla sua storia, già lontano il fragore della sua personalità. A Mattei mi accomunano soltanto i natali marchigiani e, a quanto pare dalle biografie e dalle testimonianze, il profondissimo e sincero attaccamento per questi colli. Mi accomuna forse anche il desiderio di farvi ritorno, il contare il tempo che trascorro fuori dalle Marche come il tempo che mi separa dal rientro.
Quello della conterraneità è tuttavia un legame troppo debole per giustificare una prefazione.
Mi sono quindi convinta che Verdenelli mi abbia chiesto la prefazione perché appartengo alle generazioni che Mattei non ha conosciuto, ma di cui ha segnato i destini.
Cosa resta oggi di Mattei? Cosa le generazioni successive alle sue, alle quali appartengo, devono o possono imputare al matelicese?
Dopo la morte di Steve Jobs, si è a lungo detto che il fondatore della Apple poteva nascere solo negli Stati Uniti.
Potremmo dire la stessa cosa di Mattei: solo in Italia poteva nascere un esuberante e perfetto capitalista di Stato. Altrove, in America piuttosto che a Cuba, non sarebbe potuto esistere un imprenditore con i soldi dei contribuenti, semplicemente perché in quei paesi l’iniziativa economica da un lato e l’intervento pubblico in economia dall’altro non arrivano a quella bizzarra sintesi di imprenditore di Stato, di cui Mattei è stato il prototipo.
L’Italia è il paese della borghesia incompiuta. Senza mai osare camminare sulle proprie gambe, la nostra classe imprenditoriale ha sempre preferito sedere al banchetto della politica, anche solo per raccoglierne le briciole. Della commistione fra interessi tipicamente imprenditoriali e potere politico, del clientelismo politico, Mattei, che diceva di usare i partiti come taxi, è stato forse uno dei più abili e geniali precursori.
Don Sturzo, che in Parlamento firmò numerose interrogazioni sul ruolo dell’Eni, compreso il condizionamento degli organi di stampa, e non solo del “Giorno” – giornale dell’Eni –, attribuiva a Mattei la fioritura della partitocrazia, oltre che lo svilimento dell’iniziativa privata rispetto alla mano pubblica, diretta e indiretta, che ancora oggi invochiamo a salvataggio dell’economia.
Però non si può negare che Mattei diede lustro al nostro paese, gli fornì un’occasione di riscatto, anche internazionale, dopo le piaghe del fascismo e della guerra. Col genio tipico dell’imprenditore brillante, inventò migliaia di posti di lavoro e occasioni straordinarie di sviluppo economico. Con la generosità tipica dell’imprenditore munifico, finanziò opere di assistenza privata di cui i suoi conterranei ancora beneficiano.
Nel luglio del 1962, pochi mesi prima di Bascapè, Indro Montanelli, apostrofava il Nostro in questi termini: “C’è chi dice che per guarire l’Italia delle sue molte magagne, basterebbe mettere in prigione Mattei, ma c’è chi dice anche che se l’Italia oggi ha un prestigio nel mondo, lo deve a Mattei”.
In fondo è così. Mattei fornì lavoro ai matelicesi, ma col sistema delle raccomandazioni. Diede vita a uno dei colossi imprenditoriali d’Italia, che non solo ai tempi della sua presidenza, ma ancora oggi determina il ruolo internazionale del nostro paese molto più che il ministro degli esteri; ma lo fece coi soldi dei contribuenti. Ha rischiato e perso la vita, andando a incrementare la lista dei tremendi gialli irrisolti d’Italia, a cui poi si è aggiunta persino la scomparsa di Mauro de Mauro, il giornalista che indagava proprio sulla tragedia di Bascapè; ma, da imprenditore, non ha mai rischiato il suo capitale. Ha giocato coi partiti, non per gloria e vanagloria personale, ma per dare un futuro economico al paese, lui che si accontentava di un caffè. Ha costruito il benessere economico del paese, ma a scapito della libertà economica e, come scrisse Sturzo, forse anche di quella politica. Ha modernizzato l’Italia, senza rendersi conto che un giorno essa sarebbe stata vittima proprio degli strumenti che aveva inventato per modernizzarla.
Sempre Montanelli, a quasi dieci anni dalla sua morte riconobbe che “Cefis [il successore di Mattei alla presidenza dell’Eni] non è meno ambizioso di Mattei, è solo più abile e cinico. Mattei credeva in qualcosa, anche se lo confondeva con la propria persona. Cefis crede solo nella propria persona, cioè nel suo personale potere”2. Anche Sturzo, in fondo, gli riconosceva una forte e genuina carica di idealismo, diretto però verso obiettivi e convinzioni opposte alle sue.
Semplice di carattere, ma intoccabile più di un capo di Stato, fu padre severo con i propri lavoratori e benefattore paternalista con gli umili. Un genio senza istruzione, un pragmatico di enorme fiuto, Mattei è stato più di un santo. È stato il padre, nel bene e nel male, del modo di intendere l’economia in Italia, l’artefice di una politica che ancora oggi marca la nostra storia, colui che ha dato al senso dello Stato un significato ambivalente, di servizio senz’altro, ma anche di opportunismo e assistenzialismo.
Ha fatto ricca la sua Italia, ma senza immaginare che le generazioni successive alla sua avrebbero pagato i debiti di quella ricchezza di Stato.
Forse egli vide giusto. Forse, all’indomani della guerra, incaricato di liquidare l’Agip e la Snam, carrozzoni dell’autarchia fascista, colse nel segno quando decise di trasformarli in un’azienda che avrebbe reso l’Italia indipendente dal fabbisogno energetico. Forse non c’era alternativa, all’epoca postbellica, che risollevare l’economia italiana, o meglio crearla daccapo, se non attraverso la complicità della politica e l’aiuto dei soldi pubblici. Non tutti la pensavano così, ma di certo non può dirsi che Mattei non agì motivato da altro che da una forte carica ideale e una genuina convinzione di agire per il bene del paese.
Oggi, la mia generazione si trova a decidere se questa convinzione fosse giusta o meno. Se le alternative non percorse non solo da lui, ma dalla classe politica sua contemporanea avrebbero portato a un debito pubblico inferiore, a una maggiore capacità imprenditoriale privata, a un minor rischio di affarismo politico, a un fardello meno pesante dell’eredità della Prima Repubblica.
Mi chiedo se, col senno di poi, Mattei avrebbe fatto le stesse scelte.
Ma col senno di poi, come si dice, non si fa la storia. E certo Mattei la storia d’Italia l’ha fatta. Tocca ora a noi prendere esempio dalla sua intraprendenza e dal suo ottimismo per individuare e segnare, come fece lui all’epoca, il percorso di un nuovo sviluppo economico, magari molto diverso dal suo, ma quanto meno erede del suo coraggio e di quell’instancabile forza di volontà e dedizione al lavoro tipicamente marchigiane.
Serena Sileoni