Sono stati giorni forsennati trai corridoi in cui si disegnano strategie e si risolvono formule politiche: è poi finita come tutti avete visto. Il partito del papocchio – che è definizione tecnica, affatto oltraggiosa – ha prevalso e si è imposto come canone estetico definitivo dell’esperienza politica del dimissionario premier. Monti sarà capo di una delle coalizioni che si affronteranno nelle prossime settimane, ma pare tradito lo spirito inaugurale dell’ingaggiamento: manca insomma l’essenza dei “prestati” all’amministrazione della cosa pubblica, è del tutto assente l’anima pura di quel montismo della missione civica.
Si poteva fare di meglio, inutile negarlo. E non perché l’abbondanza di chierichetti complica evidentemente ogni sforzo di modernità, o perché una rediviva Balena Bianca farà presto ad arenarsi nei vicini lidi elettorali, o ancora perché i trucchetti del risiko avrebbero potuto essere confinati alle pratiche ignobili di repubbliche precedenti, oppure perché sarà un manifesto del paradosso farsi chiamare ‘Terzo Polo’ ed inseguire una vocazione maggioritaria. Si poteva insomma fare di meglio non perché l’elettorato esigente (ma ormai avvezzo al peggio) a Monti potrebbe rimproverare di aver tenuto basse le proprie potenzialità. Almeno, non solo. Non volevamo mica la luna, sebbene nelle scorse notti – ad alzare gli occhi al cielo, un cielo tremendamente terso, quello romano impestato del fumo dei vertici concitati – vi avreste trovato una palla gigante. La sfida era culturalmente fighissima e tecnicamente complicata: spaccare quel che resta di due poli senza identità, riaggregarli sulla base delle idee, reclutare un team di coraggiosi riformatori, affidarsi alle competenze professionali di quarantenni disponibili e diffidenti, usare un contenitore unico – a selezionata inclusione ed a elevata competizione. Per offrire, se mai ancora esistesse una qualche dannata possibilità, un’alternativa di governo capace e capiente.
Non è avvenuto niente di tutto ciò. Ed, onestamente, non si capisce perché: a sfogliare il documento di un istituto di sondaggi che provava a prendere le misure delle uniformi dell’alleanza montiana, si legge che poco contano gli stratagemmi elettorali (e qui intendiamo l’ambiguità di una lista unica al Senato e triplice alla Camera). Conta, precipuamente, il piazzamento reputazionale degli alleati. E se davvero – come auspica il presidente Monti – è necessario rimontare gli assi del piano politico, in questa campagna elettorale peserà molto la dialettica vecchio – nuovo, passato – futuro, conservazione – progresso. È abbastanza evidente che la fama dei supporter di MM è controversa e poco giova al progetto. Per ragioni rocambolesche, ho potuto seguire da vicino il folle volo di una ciurma di liberi professionisti ed imprenditori di successo che tentavano di porre rimedio ai difetti di fabbricazione della nuova ditta, offrendo il loro impegno per trasformare i vuoti cartelli elettorali in un esperimento di partito nuovo che avesse come traccia genetica più definita quella dell’incubazione di policies, in linea con la felice esperienza di questo ultimo anno di governo tecnico. Il futuro, quando arriva, non tutti se ne accorgono: ma era una lucida incoscienza ad animare questa sfida.
Non avvezzi alle liturgie romane, senza troppi santi in paradiso, eppure capaci di mettere in piedi in poche settimane un’infrastruttura di relazioni ed una rete di contatti pronte a mettersi in moto, se ritenute utili. Lo schema sembrava onorevole: affidarsi alle intelligenze più libere e disinteressate per confezionare un’offerta politica liberal ed innovativa, dalla parte del futuro (o, almeno, di quella visione di futuro che hanno i self-made man, il tessuto aziendale, il mondo accademico, la borghesia settentrionale). Potreste definirlo, se vi piacciono le semplificazioni, un suicidio consapevole apparato con una febbrile eccitazione e la instancabile preoccupazione di non aderire ai modelli tanto biasimati. Su questo giornale, centinaia di cittadini avevano invitato il presidente Monti a restare in campo, molti tra questi avevano pure offerto la propria disponibilità ad impegnarsi nel cantiere di un’Italia nuova che costruisse altre riforme sulle fondamenta cementate in questi scampoli di legislatura. A scorrere i cognomi e le biografie, si sarebbe scoperta una sorta di rosa dei capicannonieri di un ideale fantacalcio del Paese produttivo: protagonisti del PIL che avrebbero avuto molte più ragioni per infischiarsene, invece che tentare una “salita” impervia.
Questo sogno utile era il sintomo di un ritrovato protagonismo degli outsider della politica italiana, galvanizzati dallo sparigliare del “podestà forestiero” e convinti dalla piattaforma programmatica in forma di agenda postata nottetempo sul blog del presidente. Era, in sintesi, il disegno di una nuova geometria dei progetti – agnostica rispetto alle direzioni classiche dei luoghi politici nostrani e concentrata sul “forward”. Un laboratorio di avvenire (con la ‘A’ minuscola), non per offrire un tetto ai senza fissa dimora dell’emiciclo parlamentare ma per costruire la casa dei riformatori, da sempre relegati nella marginalità più angusta. Non è un mistero che tra gli animatori di questa officina ci fosse un potente ministro di questo governo, balzato alle cronache per il proprio irrevocabile disimpegno di queste ore, data l’“assenza di condizioni”. I limiti di questa strampalata coalizione neocentrista saranno definiti nelle urne a febbraio (resta tuttavia un giudizio timidamente positivo sull’offerta, anche sulla base delle insostenibili alternative circostanti): sta di fatto che questo post è il racconto fin troppo genuino di un’occasione mancata, è rumore di chi sprofonda sulla poltrona esausto e disilluso giacché sconfitto dai fantasmi del gattopardismo intramontabile, la cronaca della – forse – più effimera rivoluzione socioculturale che vi si possa rievocare.