La Frusta LetterariaNomen omen – Le avventure dei nomi – Un divertissement

La vecchia disputa scolastica tesa a stabilire se "i nomi sono conseguenza delle cose" o se piuttosto "le cose sono conseguenza dei nomi" è rimasta impregiudicata, e non è mia intenzione né affront...

La vecchia disputa scolastica tesa a stabilire se “i nomi sono conseguenza delle cose” o se piuttosto “le cose sono conseguenza dei nomi” è rimasta impregiudicata, e non è mia intenzione né affrontarla né a maggior ragione (e a che titolo poi?) tentare di risolverla. E tuttavia in questa pagina sostengo la tesi nominalista. A modo mio sono un nominalista: per me sono le cose ad essere la conseguenza dei nomi, non il contrario.

Sosteneva Alberto Savinio (Narrate uomini la vostra storia) che le rovine di Troia erano sicuramente quelle scoperte da Schliemann per la semplice ragione che fu la corazzata inglese “Agamemnon” ad averle bombardate nel corso della prima guerra mondiale. Perché mai quei cannoni avrebbero puntato contro le rovine della vecchia città se la collera non placata di Agamennone non ve li avesse diretti? E continuava: «Il destino di noi uomini civilizzati è nel nome e nel cognome. Molto rari gli uomini il cui destino non sia inscritto nel loro nome e prescritto dal loro cognome. L’etimologia rivela negli uomini la persistenza delle origini».

È così? Non è così? Certo è che quando in un giorno dei primi anni ’80 ripresi in consegna la macchina dal meccanico che avevo appena cambiato e dal fondo dell’officina si sentì una voce che urlava: «Rondello, al telefono!», ebbi un sussulto. Il mio nuovo meccanico si chiamava Rondello!, proprio così, come nelle barzellette stupide che in quegli anni giravano e che volevano il peggior avvocato penalista chiamarsi Massimo Della Pena, il ministro cinese dei trasporti Fur-gon-cin, la più grande prostituta greca Irene Micateladogratis, la più brava cuoca russa Galina Cocimilova, e campione di moto il giapponese Kamemoto Mammazzai…

Sciocchezze. Freddure di un’epoca insulsa. Ma poi si andava in giro e non si, riusciva a staccare gli occhi dalle insegne dei negozi. Sarti che si chiamavano Taglialatela, negozi di articoli religiosi della ditta De Ritis, macellerie Manzi. Ma anche la lettura dei giornali diventava fonte di inquietudine. Molti sacerdoti dal cognome Cantalamessa o Verbigrazia, e un poliziotto peraltro bravissimo, ma che si chiama…Manganelli, e poi un sacco di fascisti o ex fascisti dal nome inequivocabile: Sergio Picciafuoco, Pietrangelo Buttafuoco, Guido Bombarda.
Si leggeva poi di monsignori del Vaticano, implicati in storie di banche fallite, dal nome e cognome che facevano a pugni l’uno con l’altro, ma che tradivano il contrasto tra l’inclinazione tutta terrena del prelato e la sua ispirazione religiosa: il religioso si chiamava infatti Mons. Cristiano Pagano ed aveva avuto contatti con un trafficante internazionale di stupefacenti che si chiamava… Santo Trafficante. Coincidenze. Ma si continuava a leggere: « Retata di prostitute a Genova in via della Maddalena», oppure «È in via Santa Maria “Segreta”, a Milano, che Berlusconi aveva posto la sede delle sue 22 società anonime»… Si cambiava rivista. Si comprava “Micromega”, e ci si imbatteva in un articolo di Salvo Cosanostra dal titolo “La mafia ringrazia” o si leggeva “Io Donna” del Corriere di qualche settimana fa con un servizio di Paola Calvetti su prodotti contro la calvizie…

Basta, un’ossessione! Occorreva raccoglierle tutte queste coincidenze, farne un centone, dimostrare che Savinio aveva ragione. Sia che i nomi prefigurino i destini delle persone sia che ne siano l’esatto contrario (come nel caso di un Massimo Della Pena che voglia fare l’avvocato penalista), occorre comunque raccontarla quest’avventura dei nomi, darla in visione ai lettori di Proust (Dalla parte di Swann) per il quale il nome proprio soprattutto, «urna dell’inconoscibile», contiene tutta una poesia che appartiene a ciascuno, o anche ai lettori de Il nome della Rosa, a quelli che sono stati sfiorati dal dubbio insufflato dall’autore Umberto Eco che solo … nomina nuda tenemus.

Il sequestro
Nel tragico sequestro e uccisione di Aldo Moro chi si è soffermato a riflettere che vi furono coinvolti un Valerio… Morucci e un Mario… Moretti? Un Moretti e un Morucci che uccidono un Moro. Storie dimenticate. Ma 20 anni dopo a chi dedica una preghiera Francesco Cossiga l’uomo che diresse il comitato di crisi durante il sequestro all’atto della fondazione del suo UDR? A san Tommaso. .. Moro. Leggiamo la preghiera, pubblicata dai giornali. “Dio onnipotente, per l’intercessione di Thomas More, martire (corsivo mio), rafforzaci e rafforza sempre nella nostra vita la supremazia della coscienza, sempre fedeli al re, e quindi allo Stato, ma anzitutto a Dio, e cioè alla verità e alla giustizia. Amen.”

Tra parenti
La moglie del più grande (o solo famoso) banchiere italiano Enrico Cuccia, aveva un nome che era una costante beffa per lui, si chiamava infatti Idea Socialista, proprio così, come usava fra gli anarchici o anticlericali d’inizio secolo che amavano chiamare i propri figli coi nomi degli alberi, Olmo, Pioppo, oppure compromettendosi anche all’anagrafe… Dinamitarda. Qualcun altro beffava i registri di stato civile ma non rinunciava alle proprie idee, e perciò “battezzava”, si fa per dire, i propri figli uno Rivo, il secondo Luzio, il terzo Nario. Immaginiamo quando li chiamava in serie uno dopo l’altro. Idea Socialista in Cuccia era però figlia di un grand commis dell’epoca fascista, era infatti nata Beneduce, figlia di Alberto.

Mafiosi e pacchi rotti
Il boss dei due mondi Tommaso Buscetta incuteva più rispetto in Italia che in Brasile, dove il suo cognome sparato in prima pagina su tutti i giornali, sollevava sempre qualche risatina. Pare che nel portoghese d’oltreoceano, se non la grafia, la pronuncia di Buscetta stia a significare qualcosa come “fichetta”. S’immagini d’altra parte l’effetto da noi. “Estradato don Masino … Fichetta” e tutti giù a ridere, fuorché a Palermo, e non perché sono mafiosi, ma perché “fichetta” laggiù non vuol dir nulla, chiamandosi “quella cosa” in tutt’altro modo.
I catanesi infatti passano tranquillamente, senza essere inquietati dal minimo pensiero di “fimmina”, davanti alla gioielleria “Fecarotta”, poiché da loro il sesso femminile è chiamato in altro modo (‘u pacchiu’, sing.,’ i pacchi’, pl.). Ho visto però, presso lo stabilimento postale di “Milano- Pacchi Farini”, dei catanesi saltare di gioia quando venivano inviati a lavorare presso la sezione… “Pacchi Rotti”, ossia… scondizionati.

Il naming
Gli inglesi la chiamano naming, ed è una fase del processo di produzione industriale, l’ultima, quella in cui bisogna nominare il prodotto. È una fase estremamente delicata, che deve tenere conto di molti fattori: della forza evocativa che deve possedere il nome del prodotto, della sua facile diffusione in tutti i mercati del mondo, e del fatto che non incorra, impattando nelle varie lingue, in qualche nomen omen. Come accadde alla macchina della Volkswagen, incautamente battezzata “Jetta”, e che perciò da noi nessuno volle comprare. Immaginiamo lo sforzo creativo cui sono stati sottoposti i pubblicitari che dovevano vantare la leggerezza dell’olio “Sasso”. Pare che all’inizio i “Baci” Perugina si chiamassero “Cazzotti”. Ci viene difficile immaginare che ogni 14 febbraio gli innamorati potessero regalarsi i cazzotti, anche se a onor del vero usualmente si scambiano più questi che i baci. Ma vinse l’ipocrisia sentimentale e i “Cazzotti” vennero ribattezzati “Baci”. Grande successo. Perché si era azzeccato il nome, come si dice, o perché piuttosto, come credo, si blandivano abilmente la falsità e l’artificio coi quali amiamo addolcire i nostri sentimenti?

Tra pennuti
All’upupa non giovò avere quel nome così cupo. Si meritò (U.Foscolo) una fama di uccello notturno e menagramo. E invece no, è un uccello dai colori sgargianti e assolutamente diurno. Non oso immaginare ciò che potevano dirsi A. Occhetto e B. Pollastrini quando s’incontravano, o per avventura, vengono intervistati da B.Palombelli o F. Colombo.

Tra letterati
Italo Svevo non scelse quello pseudonimo a caso. Voleva far cozzare in quel nome e cognome le sue due culture e anime. Italiana e tedesca. Com’è noto per tutta la vita Italo Svevo produsse e commerciò una speciale vernice sottomarina. Per diluirla si serviva spesso dell’acquaragia della premiata ditta “Montale” di Genova, di proprietà del padre di Eugenio Montale. Quest’ultimo che voleva intrattenere col grande scrittore triestino rapporti meno “sintetici”, dopo un incontro con Svevo a Milano, così si lamentava: «Da allora un sentore di trementina restò sempre nei nostri rapporti, che non riuscii mai a portare a lungo sul piano della letteratura».

Dalla A alla Z
Dalla Coscienza di Zeno di Italo Svevo: «Lei si chiamava Ada ed io Zeno. E a me sembrava di prendere moglie lontano dai paesi miei ».

Epiloghi
Chi poteva concludere quell’intricata tragedia dell’Amleto se non un Fortebraccio?

I buoi di Flaubert
Nella scelta dei nomi gli scrittori stanno molto attenti. Akakij Akakievič Bašmačkin del Cappotto di Gogol era già, con quel nome, figura da commedia grottesca. Difficilmente con quella onomatopea scoppiettante sarebbe potuto entrare in un copione tragico. E se a Charles Bovary non fosse stato dato quel cognome agro-zootecnico non avremmo avuto un’idea precisa della campagna normanna e della stupidità umana. Oltre a Bovary anche Bouvard (Bouvard e Pécuchet), (e il leader di qualche tempo fa degli agricoltori francesi in lotta contro la globalizzazione che si chiamava Bové), hanno un nome che trova la sua radice nel francese “boeuf” bue). È singolare che Flaubert nel voler fare uno studio sulla stupidità umana (da cui fu sempre attratto) scegliesse dei nomi che richiamavano un animale simbolo della pazienza sì, ma anche dalla faccia pochissimo intelligente, soprattutto quando rumina. D’altronde in francese per dire stupido e stupidità si dice “bête” e “bêtise”, ed era perciò più che logico che Flaubert, nel cercare i nomi per i suoi stupidi protagonisti, non andasse lontano dal mondo animale.

La vendetta del droghiere
Per tutta la vita Flaubert detestò gli “épiciers”, i droghieri, in cui vedeva la quintessenza dello spirito borghese: denaro facile e modi grossolani. Senonché ecco cosa gli successe nel racconto che ne fece in una sua lettera: «La “Revue de Paris” del 1° Agosto dà notizie di me, ma in modo incompleto, scrivendo il mio cognome senza “L”. Madame Bovary (costumi di provincia) di Gustave Faubert. E’ il cognome di un droghiere di Rue Richelieu, di fronte al Théâtre Français. Questo debutto non mi appare molto felice!»

Interrogatorio
«Come ha detto di chiamarsi lei?»
«Ilario Burlando»
«E lei pensa che uno possa pigliare sul serio le sue dichiarazioni con un nome e cognome così»
Gli era proprio scappata, la cattiveria, e di subito se ne pentì.
«Se mi fossi chiamato, che ne so, Onorio Del Vero, lei mi avrebbe creduto immediatamente? Mi compiaccio, commissario, per il suo banale conformismo».
Se l’era proprio cercata, non replicò.
(Da Un mese con Montalbano di A. Camilleri).

Attaccare i nomi per attaccare le idee
E.Bernstein, autore de I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia , acuto ma dimenticato teorico della socialdemocrazia, non amava Immanuel Kant che perciò designava storpiandogli il nome, Immanuel “Cant”, che in inglese vuoi dire “chiacchiera”.

Continuate voi…

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