Quel che la storia narra ufficialmente sono pagine piene di faglie, fenditure attraverso cui si infiltrano confessioni e carichi colmi di vuoti e mistificazioni. Tonino Cantisani è uno che zoppica per colpa di quella storia, il ginocchio gliel’hanno rotto nel campo di concentramento di Tirana dove è nato e cresciuto tra altri internati senza legittima colpa. Sono gli anni del secondo conflitto e della sua fine ingloriosa per troppi anonimi, gli stessi che scontano l’accusa di una bomba all’ambasciata russa secondo la demarcazione rovinosa di Italia pro America e Albania pro Russia.
Mentre ricorda, Tonino si trascina una sedia e subito dopo alza gli occhi per rivolgersi al pubblico prendendo spunto dall’esattezza della “pìega” del pantalone rispetto a caviglia e tallone. Tonino è un sarto che ha appreso il mestiere al campo, quello grigio e pieno di fango in cui un mastro ha saputo indicargli la strada giusta per non morire e costringerlo a parlare la lingua detestata dagli ufficiali albanesi che etichettano come spia del Vaticano e fascista chiunque provenga dal Bel Paese.
Pagine di storia che scorrono senza che l’indifferenza piombataci sopra sia arginata da una correzione corale. Tra i pochi a ricevere uno come tanti qual è Tonino Cantisani, un calabrese straniero in Italia e “taliano” traditore in Albania, il pubblico di Italianesi. Un monologo magistrale e di rara elevatezza attorale che trattiene già nel titolo quasi una seconda stirpe mista messa a nudo con rabbia e sgomento di privazioni, torture e rari spazi di immaginazione.
Il legame spezzato di Tonino col padre, il solo a essere salito sul traghetto di ritorno in Italia, si riannoda a fatica dopo il primo viaggio dal campo. Di quell’uomo lontano resta la tasca di una giacca strappata, il dolore di una vedova non per morte avvenuta, ma per separazione imposta e silenzio di decenni di censura. Resta il fantasma idolatrato da un ragazzino fattosi adulto e padre a sua volta che, dopo 128 ore di tragitto, assapora il libero stare senza condizionamenti e imposizioni. Tutto, solo per raggiungere il soldato ricercato da una vita e presentarlo al nipote che porta il suo nome, Leone. Eppure, l’incontro non è dei più caldi, Tonino prova a farsene una ragione, ma le vite sono state disperse dalla guerra e dalle sette baracche da centocinquanta persone della prigionia albanese.
I pensieri ne tagliano più volte il filo spinato, ma a distanza di anni e di un affrancamento concesso dalla caduta del regime, il fango continua a soffocare nella malinconia e nella memoria agghiacciante delle botte subìte fino a non sentire più niente. E il rimasuglio di una poesia intatta nel cucire e scegliere le gradazioni di colore simili ai campi veri, quelli di grano, è sollevato dal volto gentile di una ragazza, Selma, il colore mancante. La miseria sembra essere stata quasi capace di disperdersi di fronte a un patto d’amore che ha accettato persino il matrimonio nel campo e la nascita di due figli.
Quarant’anni di internamento sono il calco di altrettante acque e gradazioni di colore sognate da Tonino per poi metterci dentro le persone e lì imprimerle per sempre. La sua è una dichiarazione di salvezza contraria a un mondo che ha sempre delle vittime da spartire. E anche quando qualcuno di loro abbraccia la patria e ritrova le origini, è proprio quell’identità la maschera che gli tocca levarsi per tornare a piangere dopo il primo sbarco che non lava via l’essere stranieri a se stessi.
ITALIANESI
di e con Saverio La Ruina
musiche originali eseguite dal vivo da Roberto Cherillo
organizzazione Settimio Pisano
30/11/2012 e 01/12/2012
Teatro Giuditta Pasta Saronno