La pièce andata in scena giovedì 6 dicembre 2012, al Teatrino Madama, un tempo sede del Senato italiano, è una via di mezzo fra un vaudeville di Feydeau e il teatro dell’assurdo di Beckett (Finale di Partita, per citare un titolo a caso).
Decreto Crescita 2. Copione: si sta per settimane in Commissione, dove le sedute vengono sconvocate una dopo l’altra perché gli emendamenti sono cucinati in private riunioni fra relatori e governo (coi lobbisti non troppo lontani, a giudicare dai risultati); poi la Commissione, cui viene alla fine servito un minestrone assai indigesto, è chiamata a fulminee approvazioni in una non stop giorno-notte in cui riesce a infilare nel testo ancora qualche pasticcio. Malgrado tutto, il provvedimento è peggiorato ma decoroso: per la crescita ci vuol ben altro, ma molte misure sono utili.
Secondo atto. Si va in aula, e compare un altro migliaio di emendamenti. Il governo pone la fiducia e comincia il refrain: «Perché un decreto?», «Perché la crescita è un problema urgente, o si fa così o non si fa in tempo, specie a fine legislatura»; «E perché di nuovo la fiducia?», «Perché ci vorrebbero settimane per esaminare mille emendamenti, dopo che la Commissione ne ha esaminati più o meno altrettanti» (spesso addirittura gli stessi, e mi chiedo perché il regolamento consenta di ripresentare pari pari in aula gli emendamenti bocciati in Commissione).
Ma in aula, il merito del provvedimento farà solo da sfondo allo psicodramma del Popolo della libertà, giunto alla scena madre. Primarie sì, primarie no, facciamo un altro partito con il Pdl bad company (la good company sarebbe quella con Berlusconi, Santanché e soci, tanto per rendere l’idea). Dopo settimane di liti da osteria e una colazione di lavoro durata quasi tutta la giornata di ieri (ignoto il numero delle portate), i pidiellini si spaccano. E, uscendo, prendono a schiaffi il primo che passa di lì: il signor Monti Mario, 69enne di Varese, con un lavoro precario nella capitale. Si fa strada un’idea geniale: negargli la fiducia sul decreto. Non mancano i pretesti: tutti questi provvedimenti omnibus – come «scatole magiche» di un’asta di beneficienza – sono pieni di cose buone e di cose orrende, perfette per giustificare qualunque tipo di voto. Per giunta Passera ha osato criticare Berlusconi, quindi ci si può stracciar le vesti.
Ma il Pdl si divide anche sul come far casino. Meglio tenere in vita il governo per approvare la legge di stabilità, o intestarsi l’esasperazione anti-Monti dell’uomo qualunque? Il colpo di genio: alla «prima chiama» (il voto di fiducia avviene chiamando uno per uno i senatori che fanno passerella fra il banco della presidenza e quello del governo, il tutto per due volte) i senatori del Pdl, pur se in aula, fingono di non esserci. Alla «seconda chiama», poiché se mancasse il numero legale il governo cadrebbe, se ne presentano alcuni, astenendosi o votando contro, in modo cioè che prevalgano i sì. «Il decreto passa e il governo resta in piedi, ma il Pdl non lo sostiene più, e passa all’astensione», chiosa Gasparri, novello Metternich. Qualche senatore Pdl vota no, altri si astengono, altri fingono di non esserci o di dormire, qualcuno dorme davvero e vota sì perché non ha capito niente.
Torna in mente Nanni Moretti in Ecce Bombo: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?e». Immaginiamo il Paese col fiato sospeso in attesa della seconda chiama. E tristemente aspettiamo la fine di questa squallida recita.