Quello che forse si è sottolineato poco in questi giorni convulsi di crisi politica è la legittima ambizione del Presidente del Consiglio a non “lasciare il lavoro a metà”, a trasformare in permanente il progetto di riassestamento dell’Italia che in qualche modo aveva lasciato trasparire quando, un anno fa, venne chiamato alla guida del governo, con procedure del tutto inedite e in un clima tecnico da “democrazia sospesa”.
Sembra infatti che consideri un prestigiosissimo ripiego le tante ipotesi di futura “collocazione” che vengono apertamente prospettate: da un incarico “alto” in sede europea e internazionale al potente ruolo di ministro dell’Economia in un governo “politico” fino alla candidatura al Colle in successione a Napolitano. Un traguardo quest’ultimo esposto agli umori e alla composizione del prossimo Parlamento e alla concorrenza palese o nascosta di molti più scafati aspiranti. E invece appare più esplicita (e legittima) l’ambizione di non passare alla storia soltanto come il “Tassator Cortese”, il “proconsole europeo”, insomma il risanatore drammaticamente incompiuto.
Nel quadro politico che si andava disegnando nei mesi passati l’obiettivo del “Monti-bis” pareva già scritto in una condizione di sostanziale stallo nei rapporti di forza. Ovvero che un risultato elettorale ambiguo, senza una maggioranza vincente corposa e coesa, portasse naturalmente alla riedizione di una “Grosse Koalition” che, in nome dell’emergenza, riconsegnasse la guida del governo a quella figura “terza” e rassicurante già insediata nella veste tecnica e comunque benedetta dalla forza dei mercati.
Tuttavia l’evoluzione delle ultime settimane rende sempre più aleatorio un simile percorso. La “melina” parlamentare sulla riforma della legge elettorale (una “melina” di fatto più che condivisa a tutti partiti) restituisce l’intatto “Porcellum” al potere forte dei segretari in carica. Un quadro che indebolisce quel “Centro” tanto vagheggiato (ricchissimo di personaggi ma povero di voti) che può esser sì determinante come capacità di interdizione e come “ago della bilancia”, ma che ha già fallito come soggetto autonomo e vincente per conto suo in un assetto che rimane bipolare. In più lo smottamento più profondo del Centrodestra, con gli evidenti rischi di implosione in mille frammenti, e l’incognita quantitativa del movimento di Grillo (oltre alle altre previste formazioni protestatarie) ricaccia nel limbo la concreta possibilità di una comoda soluzione “super partes”. E pure il vincente annunciato, il Centrosinistra, uscito con una fisionomia più marcata dalla kermesse delle primarie, appare meno in grado di rappresentare un più vasto blocco sociale al di là dei suoi confini, nonostante l’insistita, rassicurante e feroce bonomia di Bersani.
Ecco che allora si è fatta pian piano strada la meno facile alternativa: quella cioè di un Monti apertamente collocato, come guida esplicita e attivo federatore della dispersa area moderata, da sempre maggioritaria nel Paese, una volta che viene organizzata e motivata a superare il disgusto e a non disertare le urne. E anche l’ipotesi più semplice (quella cioè di un Monti “sponsor indiretto” di un Centro affollato di generali gelosi ma scarso di truppe e incapace di decollare nei sondaggi) sbiadisce nella presa d’atto di una debolezza strutturale e probabilmente irrimediabile. Occorrono più forze e più consenso già consolidato. Ed è qui che arriva l’impazienza di Berlusconi, pronto a interpretare in prima persona e con il suo ancora consistente pacchetto di voti quella “trasmigrazione” che molti dei suoi già si preparavano a fare in ordine sparso. Il Cavaliere ne uscirebbe un poco più protetto e un po’ meno esecrato, a condizione però che porti in dote al rassemblement moderato l’altro pacchetto di voti a questo punto decisivi, quelli cioè del riottoso alleato leghista.
E’ intorno a questa prospettiva (non a caso “scomunicata” con insolita durezza da un D’Alema che manifesta le sempiterne frustrazioni di una sinistra prigioniera del suo vizio d’origine) che si muove il diplomatico silenzio del Professore in attesa della definitiva approvazione della legge di stabilità. Anche perché, per vie del tutto imprevedute, si va materializzando la sfida più impegnativa e insieme più affascinante: quella cioè di trovare un “novello De Gasperi”, una figura che manca da più di mezzo secolo nel panorama della nostra politica. E qualcosa corrisponde anche per Mario Monti: liberale di formazione, cattolico per convinzione, settentrionale di nascita e di cultura, abituato a guardare (e a contare) al di là delle Alpi e forse sedotto dal sogno di inventare una “normalità” politica italiana, da troppo tempo sconvolta dalla supplenza giudiziaria, dalla mediocrità dei suoi attori abituali, oltre che dal peso sempre più intollerabile di uno Stato avido, inefficiente e corrotto.
Il calore affettuoso con cui il Professore è stato accolto all’incontro di Bruxelles del Partito Popolare Europeo ne è insieme il sigillo e la spinta. Quasi che la storica famiglia europea che raccoglie non solo i partiti di ispirazione cristiana ma la variegata e nobile tradizione di stampo liberal-moderato intraveda la possibilità per l’Italia di rientrare finalmente nell’alveo dei fondatori, chiudendo l’ormai estenuata eccezione berlusconiana. E’ una scommessa che attira non solo l’ammaccato establishment italiano ma anche realtà popolari troppo spesso deluse e disilluse da una offerta politica poco complessivamente poco consona all’assetto sociale e culturale del Paese. Riannodare il filo con il passato degasperiano e la sua grande ricostruzione anche morale dalle macerie del dopoguerra è un bell’impegno, ma anche una direzione carica di significato e di prospettiva. A patto di riuscire a raccogliere i voti…