Giuseppe Civati ha in questi ultimi giorni rilanciato con forza la sua proposta di “primarie” aperte per i candidati democratici al Parlamento alle prossime elezioni politiche.
La sua idea ha ancora diversi punti oscuri, e le parziali soluzioni che propone sono evidentemente segnate dalla necessità di una corsa contro il tempo. Sembra ormai che le elezioni politiche debbano aver luogo non a marzo-aprile, ma addirittura a febbraio; in meno di due mesi è quindi necessario raccogliere le candidature interne, redigere le liste, sottoporle a un corpo elettorale dai contorni ancora incerti (l’uso del registro elettorale delle primarie per il candidato premier può effettivamente essere un’idea, ma è sarebbe comunque una soluzione transitoria), permettere un adeguato periodo di campagna elettorale a candidati e gruppi di candidati, procedere al voto in tempo utile per la chiusura ufficiale delle informazioni da inserire nelle schede. È quindi abbastanza naturale che la volontà di evitare questo confronto, ora che le storture del “porcellum” sembrano nel breve periodo irreparabili, da parte di molti maggiorenti del partito si traduca in un “sarebbe bello, ma non c’è tempo”, che in realtà nasconde un implicito “mi sono speso per far vincere il mio candidato premier, adesso la partecipazione a definire gli equilibri del gruppo parlamentare è un mio diritto acquisito”.
Eppure tutte queste imperfezioni, e l’inevitabile improvvisazione di un esperimento inedito in queste proporzioni, non valgono i possibili effetti positivi che rendono il tentativo di organizzare un coinvolgimento degli elettori nella determinazione dell’ordine di lista assolutamente positivo:
- Nel suo anno di “vacanza” dalle incombenze governative, la nostra classe politica aveva tra i suoi compiti fondamentali l’elaborazione di una legge elettorale razionale: non solo non c’è riuscita, ma tutte le proposte sul tappeto non hanno mai nemmeno scalfito i limiti di partecipazione popolare alla selezione dei parlamentari imposti dal “porcellum”. Il PD è senz’altro corresponsabile di questa situazione, ma può parzialmente redimersi stimolando la partecipazione al suo interno.
- Come si è visto ampiamente nella gestione della sfida Bersani-Renzi, con volontari che sentivano “puzza di fascisti” per ogni elettore che entrava per la prima volta in una Casa del popolo, e con le restrizioni alla registrazione del secondo turno che in molti casi hanno dato per scontato che l’iscrizione anticipata alle liste fosse la l’ossessione principale di tutti i potenziali elettori, il PD si trova al centro di una interminabile transizione. Il partito è riuscito, nella sua migliore affermazione, a raccogliere 12 milioni di voti (ora probabilmente è in grado di mettere in campo almeno 9 milioni di consensi), e ha 600.000 militanti o poco più; eppure i dirigenti ragionano ancora come se gestissero un partito in cui 2 milioni di militanti gestiscono 8 milioni di consensi, e si sono visti i risultati con la capacità di Renzi di crearsi una solida rete di consensi non semplicemente tra gli elettori “arrabbiati”, ma anche tra i tanti amministratori locali selezionati ed eletti a dispetto delle direttive di vertici ormai privi della linfa vitale di una diretta esposizione al giudizio dei simpatizzanti. Il rapporto tra la struttura, anche di base, dell’organismo e il suo peso sociale sono completamente diversi dai partiti di integrazione di massa classici, e questa è una evoluzione definitiva determinata dalla cultura diffusa, dallo sviluppo delle abitudini, dalla maggiore (e sempre positiva) “secolarizzazione” dei cittadini dalla politica. Occorre trovare un modo di coinvolgere l’elettorato potenziale nella scelta dei candidati alle cariche pubbliche, altrimenti questo elettorato potenziale verrà progressivamente eroso da una crisi di rappresentanza delle forze politiche che ha tante ragioni, ma che sicuramente trova quella più evidente a occhio nudo proprio in questa esclusione dalle scelte. Le selezioni aperte dei candidati al Parlamento, quindi, sarebbero un primo tassello per risolvere un problema non più rimandabile nello sviluppo della forma-partito. Questo, tra l’altro, le rende qualcosa di ben diverso da un'”americanata”, visto che le proporrebbe come soluzione originale a una questione che riguarda caso mai le formazioni politiche di tutta l’Europa continentale, altrove meno potentemente avvertita perché i partiti hanno avuto una trasformazione più graduale di quella consentita dal nostro sistema a lungo “congelato”. Per la militanza e l’organizzazione, infine, ci sarebbe un nuovo e decisivo ruolo, visto che ad esse sarà demandato il controllo delle regole di accesso al voto e soprattutto la strutturazione dell’offerta attraverso la scelta dei candidabili, due elementi fondamentali nella costituzione del sistema di rappresentanza.
- L’esito delle primarie del 25 novembre-2 dicembre ha restituito un segretario forte (forse perché ampia quanto variegata è la coalizione che lo sostiene), ma anche un 40% di partecipanti, attentamente selezionati e verificati da parte di un partito che ha deciso di scegliere nel modo più accurato possibile i suoi elettori, quasi presentando come un favore quella che dovrebbe essere la sua unica ragione di vita, ovvero la partecipazione dei cittadini alla politica, che non hanno praticamente alcun riferimento negli organigrammi e negli uffici che si vogliono unici responsabili della produzione delle candidature in Parlamento. Dal 2 dicembre, si discute molto, in termini astratti e spesso retorici, su come utilizzare la “risorsa” Renzi, capace di generare in pochi mesi un così grande consenso. L’idea circolante è che dietro queste proposte si nasconda la ricerca di tentativi di “inchiodarlo” alle responsabilità di un Esecutivo che non lo rispecchierà, senza dargli la possibilità di contribuire. Questo non è corretto innanzi tutto sul piano formale, visto che è Bersani ad aver ricevuto la responsabilità di creare un possibile governo, e sulle sue spalle saranno le responsabilità. Caso mai, l’apertura ai suoi elettori per la scelta dei candidati parlamentari è la forma più semplice per garantire voce alle istanze ben rappresentate dal canddiato premier perdente: gli equilibri di un organismo collettivo come il gruppo parlamentare sarebbero più rispondenti alla realtà, e al di là del sicuro sostegno fiduciario al governo ci sarebbe per i parlamentari usciti da quella realtà spazio per introdurre e sviluppare proposte legislative autonome.
- Questo impegno a coinvolgere elettori che, si è visto, non sono che parzialmente rappresentati dalla nomenclatura che si arroga il diritto di decidere i rappresentanti sarà inoltre necessario per semplici ragioni di opportunità politica. Le rilevazioni demoscopiche hanno mostrato quanto possa far bene, in termini di consenso, il coinvolgimento anche competitivo di diverse anime dell’area politica democratica. Il ritorno a scelte di natura monolitica, basate sul consenso e sul compromesso più che sul confronto, rischieranno di allontanare molti potenziali elettori interessati che, il 2 dicembre, non hanno visto trionfare la loro opzione. La fragilità dei consensi di un partito che porta avanti i processi decisionali secondo gli schemi tradizionali è del resto evidente anche ai suoi vertici, a giudicare dall’isteria prodotta dal ritorno sulla scena di un Berlusconi che, di fronte a un PD capace di dare il giusto peso ai settori dell’opinione pubblica che gli si avvicinano, non avrebbe alcuno scampo.