Il prossimo ex-precarioTeresa rompe le palle

Il titolo originale di questo post sarebbe dovuto essere qualcosa del tipo “Breviario della mia prima settimana romana” o giù di lì, ma poi un episodio ha scosso la quotidianità in casa Parella-Ben...

Il titolo originale di questo post sarebbe dovuto essere qualcosa del tipo “Breviario della mia prima settimana romana” o giù di lì, ma poi un episodio ha scosso la quotidianità in casa Parella-Benigno e nulla è stato più come prima. Di questo increscioso misfatto vi accennerò alla fine del pezzo (non fate come quelli che vanno subito al fondo dei libri-game per scegliersi poi le risposte migliori da dare, pazientate e non ve ne pentirete), ma vi assicuro sin d’ora che il titolo è assolutamente, e volutamente, equivoco.

Capitolo 1 – La rondine rincoglionita

Migrare d’inverno per cercare il caldo, in attesa di ritornare sui propri passi con l’arrivo della buona stagione. Se il mio trimestrale cambio di residenza parrebbe proprio rispecchiare l’orologio biologico del simpatico volatile (anche se il mio ritorno in terra sabauda sarà a marzo, ben lungi dalla primavera auspicata dalle rondini), in realtà, non è per nulla così! A Roma fa freddo! Un uomo del Nord, uno abituato a stare sul ghiaccio 24 ore su 24 senza nemmeno farsi venire i geloni ai piedi, si spaventerà mica per la temperatura mite del centro Italia? In effetti sì, forse anche perchè la caldaia del condominio funziona quando cazzo vuole! Ma la scoperta migliore è che il mio nuovo amministratore ha deciso che il riscaldamento si accende alle 11 e si spegne alle 23. La doccia mattutina diventa così prova di coraggio per i giovani Inuit in cerca di affermazione sociale. Ma tanto a Roma fa caldo… Tornando al parallelismo con i sempre benvoluti uccelli dalla coda famosa (benvoluti anche se ti fanno il nido sotto il tetto del garage e ti riducono la macchina ad un dalmata di guano), il loro viaggio verso l’Africa sub-sahariana è lungo più di 6.000 km e li costringe ad un estenuante sforzo per raggiungere i lidi prescelti. Il mio umile trasferimento in Afr…ehm…a Roma, seppur imparagonabile a livello di distanza (anche se il fattore “Trenitalia” può complicare sempre e comunque le cose quando meno te l’aspetti), ha messo alla prova in egual misura le mie risorse psico-fisiche. Due giorni di preparativi, scelta degli abiti da portare, ancor prima scelta del tipo e della quantità (!!) di valigie da usare; poi, per mia enorme fortuna, ha assunto il comando la donna Tetris. La donna Tetris, andando oltre le triviali e scontate battute che mi aspetto da più di uno dei miei lettori abituali, – sì, sai benissimo che sto parlando con te! – ha la capacità innata, in quanto femmina, di moltiplicare lo spazio utile dentro un dato bagaglio. Dove un uomo a malapena infilerebbe due mutande ed un paio di calzini, lei, comandata dal cromosoma tetramino,riuscirà a farci stare dodici camicie, tre cappotti, un piumone matrimoniale, quattro set di pentole di Mastrota, una serie Miracle Blade comprensiva di televisore 42″ in omaggio e un Ducato. Ovviamente passo lungo. Vi giuro che, dopo essere arrivato ed averla svuotata, ho provato la fortissima tentazione di tuffarmi dentro una Samsonite per vedere se dall’altro lato sarei sbucato a Hogwarts! Nonostante le stregonerie di incastri di Teresa (vi ricordate di lei? è soprannominata anche Pulcinella e qui potete capire perchè), il compito si presentava improbo. Due valigie erano già state lasciate a Roma insieme alla mia macchina nel precedente weekend di master, ora mi aspettava un volo aereo su cui caricare ulteriori due valigie grandi, un trolley, uno zaino e un me stesso grondante di sudore e bestemmie. Dopo aver pagato per il secondo bagaglio da mettere in stiva (praticamente credo di aver coperto da solo il pieno del jet), il mio cruccio più grande era di capire come diavolo trasportare un totale di 5 valigie da solo fino alla macchina.

Vi dico una cosa: se le rondini dovessero portarsi tanta roba per starsene qualche mese in Africa, col cazzo che partirebbero! passerebbero l’inverno a Borgio Verezzi e chi s’è visto, s’è visto! Dodici trasbordi dopo, ero finalmente pronto a raggiungere la mia nuova casa in zona Prati Fiscali, ameno quartiere collinare che sembra San Francisco, ma probabilmente deve il nome all’ormai ex-premier Monti.

Capitolo 2 – Il loculo igienizzato

Grazie al navigatore riesco ad orientarmi nell’insulsa viabilità della capitale e arrivo in via Chiusi 68 puntuale come uno svizzero. Anzi, come un torinese, ma talmente puntuale che l’agente immobiliare, ovviamente, non c’è. Da buon padano rispettoso della legge parcheggio la macchina in doppia fila esattamente davanti al portoncino d’ingresso, prevedendo la quantità di viaggi che mi aspettano per portare tutto su. Chiavi consegnate e via, parte il trasloco. Uno, due, tre, quattro viaggi, torno giù per parcheggiare il bolide e risalgo per godermi la nuova dimora. Il Maniero, come lo chiameremo da ora in poi, consta in una innovativa cucina unidimensionale, nel senso che è solo lunga, la larghezza praticamente non esiste, tanto che per aprire la porta del balcone devi chiudere tutte le ante, tirare in dentro la pancia e accendere il climatizzatore al massimo per intirizzire e far ritrarre il pene; segue un bagnetto delle dimensioni di una cassa da morto, per metà occupato da una inspiegabile vasca a due livelli (se ti metti in piedi da un lato tocchi il soffitto con la testa, dall’altro sembri David Gnomo senza il cappello) e uno stanzone che funge da salotto, sala da pranzo, camera da letto, studiolo, cabina armadio e ripostiglio. Vera perla di design sono le piastrelle, molto anni ’60, quasi psichedeliche, ma che con il loro particolare disegno nascondono totalmente qualsiasi traccia di sporco possa celarsi sul pavimento. Un inganno mica da ridere, soprattutto per un pigro come me che, attirato dalle sirene del finto pulito, sarebbe già stato pronto a buttarsi sul letto e fottersene bellamente di ogni norma di igiene personale e casalinga. E invece no, superato il primo periodo di ambientamento agli acari locali, ritrovo nei meandri delle valigie, tra stoviglie in ceramica arrotolate nei maglioni, succhi di frutta infilati nei calzini e un tubetto di maionese nello stesso sacchetto con scarpe e spazzolino da denti (so che non mi credete, ma per la donna Tetris il fine giustifica i mezzi!), ciò che cercavo: guanti di gomma, detersivi e spugnette.

La prima sera mi sono limitato ai mobili di camera e cucina. Era vitale che fossero puliti per poter mettere in ordine il cumulo di vestiti, pentole e cibarie che mi era stato fornito, ma nel corso della settimana anche i pavimenti hanno avuto il loro bel trattamento da massaia consumata e di ciò ne andrò sempre fiero. Potrei anche raccontarlo ai nipotini un giorno con frasi del tipo “Bambini, ora vi racconterò di quella volta in cui il nonno, per sopravvivere, si è dovuto abbassare a fare lavori da femmina…”. Vedo già i loro occhi estasiati, le bocche spalancate e l’idolatria nascente verso questo anziano impavido e duro a morire.

Capitolo 3 – Ora et labora o di come essere del Toro può aiutarti nella vita

Del lavoro in sé non posso ancora dire molto. Sono stato assegnato alla redazione che produce il Tg Economia delle 18,35, materia di cui padroneggio, eufmisticamente parlando, una beata cippa di mi…a. Dovendo però occuparmi di “macchie” (spiegazione al penultimo paragrafo) e dintorni, non è richiesta una conoscienza specialistica in bot, spread e dinamiche glocali della lavorazione dello storione asturiano, per cui me la cavo comunque e, anzi, imparo qualcosa di nuovo. L’ambiente è buono, con le prime due parole scambiate ho scoperto che il mio caposervizio, nonchè conduttore del tg, è di Caselle, un compatriota! Saputo questo si poneva lo spinoso problema della squadra di appartenenza: lavorare per un capo gobbo potrebbe trasformare ogni giornata in un calvario, soprattutto in questi anni, soprattutto presentandosi a due giorni dal derby. Muovendomi sull’orlo di un precipizio dialettico e morale, ho indicato l’unica cosa di granata presente nella stanza, un ombrello. Lo stratagemma ha funzionato, il capo ha colto l’allusione e mi ha confermato la prima impressione di estrema simpatia: è un fratello di tifo! Uff…evitato il peggio. Non ho mai avuto un diretto superiore che tenesse per i Campioni di Venaria, un paio erano del Toro, uno, ininfluente, del Cesena. Ho poi scoperto che nella sede romana di Sky i torinisti sono una cospicua minoranza e, anche se la stragrande maggioranza dei giornalisti, operatori, montatori, guardie giurate e netturbini presenti nel palazzo si divide tra giallorossi e laziali, il solo dichiarare di abitare a Torino e di non essere gobbo ti apre le porte a splendidi rapporti di amicizia. Un montatore con cui stavo lavorando mi ha dato del calabrese. Lì per lì non ho trovato un appiglio logico per giustificare questa sua affermazione. Ho la pelle di un bianco fosforescente, le vocali aperte come le gambe di una delle simpatiche signorine che affollano la strada antistante l’ufficio e non mi piace nemmeno il piccante! Chiarito l’equivoco e consigliatogli un buon analista, il collega si è subito rifatto con la frase: “ma allora se sei torinese doc, tifi Toro, vero?”. Giubilo, Osanna e Alleluia. Lo sanno veramente in ogni dove che Torino è stata e resterà granata!

Capitolo 4 – Il fattaccio

Venerdì sono tornato a casina per il weekend dato che poi potrò rivedere le montagne piemontesi solo per le ferie natalizie e questi due giorni sono stati forieri di grandi spunti per questo articolo. Tanto per cominciare, e per la gioia dei compagni di master che ormai gufano sulle mie trasferte per potersi fare grasse risate alle mie spalle, Trenitalia non ha deluso nemmeno stavolta, anzi, si è superata. Il Frecciamerda Roma-Milano ha ritardato come al solito e mi ha fatto, di nuovo (per laterza volta su quattro totali), fatto perdere la coincidenza per Torino. La scandalosa politica delle Ferrovie dello Stato, prevede che per i pubblicizzatissimi Frecciaqualcosa, un passeggero abbia diritto al rimborso solamente in caso di ritardo di oltre UN’ORA, altrimenti puppa. Ebbene, dopo aver dovuto subire passivamente i primi due “contrattempi” da 26 e 44 minuti, questa volta la ciambella è venuta senza il buco e il treno è arrivato in stazione 1 ora e 1 minuto oltre l’orario previsto. Pregusto il dolce sapore di reclamo come un vampiro che sta per affondare i propri canini nella carotide di Justin Bieber…ma nel frattempo, come potete vedere qui sotto, ho dimostrato alla compagnia che, in fondo, l’ho presa bene.

Viaggio a parte, veniamo a noi. 8 dicembre, giornata mondiale del “facciamo l’albero e togliamoci dai coglioni sta rottura almeno fino all’Epifania”. Travolto da un dilagante spirito natalizio, ho fatto il bravo uomo di casa che, in questa occasione, vuol dire andare giù in cantina, recuperare albero e circa dieci scatole di decorazioni e riportare il bottino in casa per dar modo alla donna Alfa, di fresco autonominatasi “Gran Visir dell’addobbo”, di posizionare ogni singola pallina, lampadina o statuetta con precisione da amanuense. Piccola digressione sul nostro abete. È il primo Natale che passeremo nella casa nuova, per cui non avevamo ancora l’albero. Se ne è occupata la Pulci (vedi sopra per un riepilogo dei soprannomi), interpellando fioristi e giardinieri di Torino e provincia per accaparrarsi il miglior sempreverde (finto) del circondario. Risultato ottimo, ça va sans dire: un tronco di 1,80m con un fogliame degno della foresta Amazzonica. Unico neo, andando alla ricerca di istruzioni per il montaggio, sulla scatola noto questa scritta: “Made in Naples”. “Cavoli” penso “ha comprato una palma!”. Dopo lo scoppellotto d’ordinanza, ci mettiamo ad addobbarlo con palline di ogni colore e genere. Tra queste, però, una spicca più delle altre. È di vetro finissimo, decorata a mano da un artigiano centenario che subito dopo è morto, non prima di aver indicato questa sua ultima opera come il suo capolavoro definitivo. Ed è un regalo di mia madre.

La signora P. si è presentata qualche settimana fa dalla donna Alfa serbando in grembo questo inaspettato dono natalizio. “Ho fatto una follia e ti ho comprato questa pallina. Guarda, è introvabile, l’ho avuto al prezzo di una Jaguar, mi raccomando!”. Ecco, il “mi raccomando” racchiude un po’ tutto. Denota l’importanza del gesto, il valore economico e sentimentale dell’oggetto e, soprattutto, è foriero di sfighe inenarrabili. Al momento di appenderla ho pavidamente lasciato il compito a Teresa, conscio delle nubi gufatorie che si andavano addensando sulle nostre teste. La bellezza del manufatto era abbacinante, la luce si rifletteva morbida sui colori delicati di quella bolla di cristallo e poesia. Ad aggiungere pathos all’operazione, non c’era il classico gancetto di plastica o il filo dorato per appenderla ai rami, ma un elegantissimo, quanto insidioso, nastrino di seta da annodare. Mai e poi mai mi sarei preso una simile responsabilità! La padrona di casa, invece, sprezzante del pericolo, l’ha appesa al ramo più alto della nostra sequoia natalizia. Vedendola lassù, inerme e in bilico sul parquet, ho pensato ad una sola cosa: il monologo dei quadri. Ero sicuro che in una notte compresa tra sabato e il 6 gennaio, senza motivo, ad una data ora, un dato secondo … SBRAM! per terra, in mille pezzi. Ma il fato non ha voluto aspettare. È bastato un nastro argentato birichino che non è rimasto al suo posto e il dramma si è consumato in un istante, un crash da fumetto, brillantini e vetri ovunque, un urlo soffocato contro la mia spalla. Teresa in preda al panico si siede sul divano, lo sguardo fisso verso i cocci sul pavimento, le mani giunte davanti alla bocca. Io tento di sdrammatizzare, corro a prendere scopa e paletta per far scomparire l’efferata scena dagli occhi lucidi della mia amata, ma quel crash continuerà a rimbombarle in testa per ore.

Rapida valutazione delle opzioni che ci rimangono:

1. Non dire nulla, andare alla ricerca del negozio, ricomprare la palla, costi quel che costi! 2. Non dire nulla, ostentare indifferenza sperando che alla prossima visita la signora P. non se ne accorga 3. Non dire nulla per il momento, provare a cercare la palla e confessare solo nel caso in cui non si trovi o il prezzo costituisca violazione del salary cap casalingo. Nel caso, dare la colpa dell’accaduto a Monti, un meteorite o un acuto del vicino canterino 4. Confessare la rottura, ma dichiarare che al momento della tragedia eravamo fuori casa, “l’abbiamo trovata già così” 5. Incolpare la donna delle pulizie, un classico intramontabile e sempre utile 6. Ammettere le proprie colpe, piangendo e flagellandosi il dorso con listelle di liquirizia, sperando nella magnanimità della suocera/madre 7. Impiccagione preventiva

Dopo lunghissimi minuti di attenta valutazione dei pro e contro (io proponevo un misto tra la 5 e la 7, cioè inscenare il suicidio della donna delle pulizie, rosa dal senso di colpa), la donna Alfa, ormai ridotta dalla vergogna a femmina Omega, ha deciso di vuotare il sacco. Non a voce, quello sarebbe stato troppo anche per Braveheart, ma con un sms denso di scuse, umile rassegnazione e dolore, tanto dolore, insieme alla promessa di ricomprarla a nostre spese.

Chiuderò questo articolo con la risposta, arrivata qualche istante dopo che ha gelato il clima di ottimismo che, nonostante tutto, si andava creando tra i presenti. Una risposta degna del Guinness delle suocere, anzi, delle Suocere con la maiuscola, quelle che non devono chiedere mai.

Mi spiace, ma non credo la troverai uguale. Mi era sembrato che la commessa mi facesse UN GROSSO FAVORE a darmi quella…

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter