Il rapporto Pendolaria 2012 redatto da Legambiente sullo stato delle ferrovie regionali è la fotografia impietosa di un Paese incapace di offrire servizi dignitosi alla crescente domanda di mobilità degli italiani. Purtroppo questo è solo uno degli aspetti e nemmeno il più grave. Oltre a Legambiente, quattro differenti studi individuano i punti deboli del trasporto pubblico locale (gomma, ferro, metro e tranvie) nella mancanza di accesso al mercato da parte dei privati e nelle croniche carenze infrastrutturali. Ecco perché il trasporto locale in Italia costa molto di più che in Europa e i cittadini restano a piedi.
Punto primo, il mito della mancanza di fondi, alimentato ad arte da chi intende mantenere le attuali inefficienze, deve essere sfatato una volta per tutte. Il trasporto pubblico ha bisogno di meno soldi, per lo meno di meno soldi pubblici. Nel periodo 2008 – 2010 i fondi per il Tpl in Italia sono aumentati del 30 per cento. Però la distribuzione dei sussidi da parte delle Regioni è avvenuta e continua a essere fatta secondo le modalità precedenti, ovvero la spesa storica. Nonostante numerosi tentativi di individuare i costi standard, soprattutto ad opera delle associazioni dei gestori privati, i criteri di riparto restano immutati. Tanto ti davo l’anno scorso, tanto ti darò quest’anno, indipendentemente dal servizio effettuato, dalla qualità e dalla soddisfazione degli utenti. Questo è possibile soprattutto perché i riparti dei sussidi sono tratti da cespiti fiscali di altra derivazione, socializzando i deficit delle società su tutti i cittadini e vengono distribuiti in base alla spesa storica senza prendere in considerazione l’adozione di strategie per migliorare la sostenibilità ambientale o premiante obiettivi di miglioramento gestionale e performance organizzative e finanziarie migliorative Come è facile dedurre un siffatto sistema premia le aziende più inefficienti e induce comportamenti controproducenti, poiché può essere più conveniente (e in molti casi lo è) far viaggiare gli autobus vuoti anziché pieni.
Punto secondo, senza concorrenza i costi aumentano. Pronunciare la parola concorrenza significa bestemmiare in un Paese dove la stragrande maggioranza delle imprese di trasporto pubblico è controllata direttamente o indirettamente dagli enti pubblici. Gli enti locali programmano e regolano il servizio di trasporto e affidano la gestione alle proprie municipalizzate controllate direttamente o indirettamente. In sostanza, spiega un paper dell’Istituto Bruno Leoni, la riforma del 1997 che prevedeva l’affidamento in gara dei servizi di trasporto è sostanzialmente naufragata. Eppure, dice il rapporto, il confronto tra i diversi modelli suggerisce che il livello di efficienza risulta maggiore nei paesi dove è più alto il grado di liberalizzazione, raggiungendo i valori massimi nel Regno Unito e in Svezia. In 15 anni, le gare hanno consentito una riduzione dei costi reali unitari del 50-55% a Londra. La commistione di ruoli vigente in Italia porta a paradossi come quello di Venezia, dove la locale azienda municipalizzata di trasporto, Actv per i servizi di terraferma non ha neppure una mappa con le fermate né cartacea né on-line. Chi ha bisogno di conoscere il punto preciso e il nome degli stop dell’autobus fa prima a servirsi di Google Map. In laguna, invece, un viaggio in vaporetto costa 7 euro, nonostante Actv assorba da sola oltre il 42% del totale dei sussidi messo a disposizione dalla Regione.
I costi. Con gli stessi soldi, in Francia, Gran Bretagna, Germania e Olanda viaggiano un terzo in più. Secondo quanto riportato da un recente studio della Fondazione Caracciolo, un chilometro di trasporto pubblico locale in Italia costa 3,5 euro, contro i 2,6 della media europea. Inoltre che il costo del lavoro in Italia è il più alto 2,3 euro a km mentre la produttività è la più bassa in assoluto, 1 addetto ogni 17.060 km contro uno ogni 23.423 km della Svezia, uno ogni 18.000 di Belgio e Olanda, uno ogni 20 mila e passa di Francia e Regno Unito. Inoltre, il grado di copertura dei costi da traffico è di gran lunga il più basso d’Europa 30,7%. I ricavi così bassi sono dovuti da un lato a tariffe che fino a qualche hanno fa erano calmierate – negli ultimi anni hanno subito tuttavia crescenti adeguamenti rispetto agli standard europei; ma soprattutto sono dovuti a fattori di copertura dei posti disponibili di gran lunga inferiori al resto d’Europa. Il cosiddetto Load Factor in Italia è pari al 22% contro una media europea del 34%. Senza arrivare al massimo di copertura dei costi raggiunto nel Regno Unito con l’84,2%, basterebbe avvicinarsi alla media europea del 52,1%. Differenze così marcate rispetto al resto d’Europa possono essere spiegate anche con la chiusura del mercato e la commistione dei ruoli degli enti pubblici, ad un tempo controllori e controllati. Oggi in Italia sono le aziende municipalizzate o partecipate a maggioranza dagli enti locali a detenere le quote di mercato più ampie. Il grado di apertura del Tpl agli operatori privati è pari al 32%.
Pur con numeri differenti alle medesime conclusioni sono arrivati gli studi della Banca d’Italia nel 2008 e quello dello studio di Bain & Co, in corso di pubblicazione. L’analisi comparativa del nostro sistema nazionale con i principali paesi europei (Francia, Germania, UK e Spagna) ha evidenziato l’esistenza di una serie di criticità importanti. Con riferimento al Trasporto Pubblico Locale in senso stretto emergono:
· un “load factor” (rapporto tra passeggeri trasportati e posti offerti) del 22% contro una media europea del 34%, riconducibile ad un deficit sul fronte della domanda e ad un eccesso di offerta;
· un’eccessiva frammentazione dell’arena competitiva: oltre 1.100 aziende, produzione chilometrica aggregata dei primi 5 operatori pari al 30% a fronte del 49% medio europeo (65% in Francia);
· costi operativi (€/vettura-km) superiori del 16%, con una elevatissima variabilità tra i diversi sistemi regionali (da meno di 2 €/km a 5 €/km);
· minori livelli tariffari: tariffe più basse del 30-50%.
In sintesi, il gap rispetto all’Europa è di circa 2 miliardi di Euro di maggiori contributi pubblici di cui 1 miliardo per maggiori costi e 1 miliardo per minori ricavi da traffico.
Infine, rispetto al resto d’Europa l’Italia sconta la mancanza di infrastrutture come Metropolitane e Tranvie. Questo è vero soprattutto nelle grandi città dove le carenze infrastrutturali costano ad ogni cittadino 1.500 euro l’anno secondo la ricerca sul Tpl fatta dalla Fondazione Caracciolo nel giugno 2012, cioè ogni famiglia paga la mancanza di mobilità collettiva tre volte il costo dell’Imu.
Nel frattempo, però, la domanda di trasporto è aumentata. Come segnala il rapporto del Censis per le Teknocittà, pubblicato il 13 dicembre 2012, i pendolari dal 2007 a oggi in Italia sono 1 milione in più, passando dal 22,2 al 23,4 per cento della popolazione residente.
Allontanare la politica dalla gestione. Gli studi citati indicano che in Italia bisogna prendere una strada diversa. Innanzi tutto va reciso definitivamente il cordone ombelicale che lega le amministrazioni pubbliche alle aziende di trasporto. Come si afferma nel paper dell’IBL “il modello italiano andrebbe quindi ristrutturato in modo da assicurare una maggiore apertura al mercato, che consenta da una parte di sfruttare i vantaggi di efficienza garantiti dagli stimoli competitivi (come suggerito da Fazioli et al.), e dall’altra di minimizzare l’importo dei sussidi (secondo l’opinione di Levaggi), sia per ridurre l’impatto del settore sulla finanza pubblica, sia perché hanno natura distorsiva (inducono a realizzare capacità produttiva inutilizzata). Ad esempio, uno studio di Obeng e Azam (1997) sull’impatto dei sussidi a lavoro, capitale e carburante mostra che sia le imprese pubbliche che quelle private tendono a sovrautilizzare lavoro e carburante rispetto al capitale. Mentre però gli operatori privati sono quasi efficienti nell’uso del lavoro rispetto al carburante, quelli pubblici tendono ad abusare sia di lavoro e carburante rispetto al capitale, che di carburante rispetto al lavoro. L’esperienza internazionale mostra inoltre che la diffusa attuazione delle gare non solo ha portato a un miglioramento della qualità e della quantità dei servizi offerti, ma ha anche consentito di ridurre i sussidi, con benefici rispettivamente per la collettività e gli enti locali”.
In definitiva chi regola e programma il servizio non può esserne il gestore. Oggi è questa commistione tra controllore e controllato a lasciare a piedi i cittadini. Per attuare questa riforma bisogna che le municipalizzate vengano messe sul mercato e, subito dopo, affidare i servizi di trasporto tramite gare.
Signor Rossi