Che in termini assoluti, Lionel Messi sia meglio di Iniesta, Ronaldo, Pirlo e tutti gli altri è un dato di fatto, così come lo era nel 2010, e così come, nel 1991, in termini assoluti Marco Van Basten era meglio di Jean-Pierre Papin. Allo stesso modo, nove anni prima Michel Platini era un giocatore più completo e tecnicamente più risolutivo di Paolo Rossi.
Se si ragionasse in questi termini, però, si farebbe meglio a consegnare un Pallone d’oro a decennio. Messi sta segnando un’epoca, come avevano fatto, appunto, Van Basten, Platini, Di Stefano, e pur non potendo vincere allora il riconoscimento Maradona e Pelé.
Ma per il 2012, il premio doveva andare a qualcun altro, e non per una ragione semplicemente e direttamente legata alle vittorie di squadra. Quest’anno, è vero, Messi non ha vinto granché, ma non ci è riuscito perché non è stato decisivo. Ha infranto (o forse no) ogni record di quantità di segnature, mettendo in rete palloni che avrebbe tranquillamente potuto risparmiarsi, ma in quei momenti che decidono le stagioni, dai confronti principali nel campionato nazionale più importante del mondo alla stregata semifinale di Champions League, non è riuscito a mettere il suo sigillo. Non ci è riuscito quest’anno, come non ci era riuscito nel 2010, anno in cui vinse il Pallone d’oro anche se altri giocatori avevano indirizzato, con prestazioni forse coreograficamente meno degne ma di maggior sostanza, i destini dei maggiori trofei per club e per squadre nazionali. Perché, Rossi insegna, un anno calcistico si può caratterizzare con la prestazione in tre partite, se quelle tre partite sono tra le più importanti della storia.
Oggi Messi vince il Pallone d’oro, ma gli appassionati di calcio pensando al 2012 ricorderanno altri momenti, e altri volti, perché nei momenti da ricordare il volto di Messi, generalmente, non c’era. Resta, e nessuno lo mette in dubbio, il più forte calciatore dell’ultimo decennio, ma il record assoluto della quaterna di trofei consecutiva è probabilmente troppo generoso, perché in fondo non surclassa gli altri suoi contemporanei più di quanto i grandi del passato abbiano fatto coi loro.
Ha un piede inimitabile e sa sfruttare ogni cedimento del suo marcatore come forse nessuno, ma, recita un vecchio adagio, un calciatore è tanto forte quanto riesce a dimostrarlo nella sua nazionale. E non si tratta solo di una frase fatta, perché a pensarci bene il detto ha una sua logica. Un conto è spiccare in una squadra costruita, senza badare alle spese di funzionamento, nel corso di 6-7 anni per essere un ingranaggio perfetto, con un’impostazione che arriva da organizzati e costosissimi vivai, e in cui nulla è lasciato al caso. Nella conformazione delle nazionali, la sorte, il destino di essere nati o meno in una generazione di fenomeni o in un momento di particolare grazia per il proprio paese dal punto di vista sportivo e politico-sportivo, hanno un peso assai più determinante. Sul piano della capacità di ottenere il massimo dalla generazione di giocatori argentini a cui appartiene, Messi per ora ha ancora molto da dimostrare, molto di più di quello che al di là degli eccessi personali resta ancora il più grande giocatore (almeno) del suo paese.