Più o meno un anno fa, le ripetute richieste di licenziamento per un professore liceale di Storia e filosofia che sosteneva apertamente posizioni negazioniste sulle questioni dell’antisemitismo e delle persecuzioni razziali dei regimi nazista e fascista avevano suscitato su queste pagine l’interessante e profonda riflessione di David Bidussa, storico esperto delle questioni politiche e socio-culturali legate alla segregazione antiebraica. In particolare, pur dicendosi sostanzialmente favorevole a un duro intervento disciplinare nei confronti del docente, lo studioso ammoniva a non far passare l’intera vicenda come la sanzione nei confronti di un comportamento illegale semplicemente perché opposto alle decisioni dell’ordine costituito, al buon gusto e al “politicamente corretto” imposto dalla vulgata dominante.
Anche secondo me, infatti, un professore di storia che sosteneva posizioni apertamente negazioniste doveva perdere il posto essenzialmente perché incompetente, visto che quelle conclusioni erano inconciliabili con le acquisizioni di base della ricerca storica, e anzi era necessario aprire un dibattito più ampio su quanto potessero essere valide (e per ora, per legge, lo sono tanto da rendere le assunzioni sostanzialmente irrisolvibili) le procedure concorsuali che avevano permesso a una persona così poco preparata di entrare nei ruoli dell’insegnamento medio. Comportandosi altrimenti, e non radicando profondamente il rifiuto delle tendenze sbrigativamente identificabili come “negazioniste” della persecuzione antiebraica essenzialmente sulla loro infondatezza, si correva il rischio di giustificare la sanzione sulla base di legislazioni che, nei fatti, imponevano di credere a una verità piuttosto che ad altre, e impedivano di avere determinate opinioni, indipendentemente da quanto le idee imposte e quelle proibite rispondessero o meno ai riscontri disciplinari disponibili: in altri termini, si correva il rischio di trasformare un docente impreparato e incapace in un martire del “sistema”.
Queste stesse idee mi sono tornate alla mente poco fa, quando in TV ho avuto la sfortuna di sentire le parole di Silvio Berlusconi alla celebrazione del giorno della memoria a MIlano. Così il resoconto arrivato praticamente a tutti gli organi di stampa:
Per l’ex premier “è difficile mettersi nei panni di chi decise allora. Certamente il governo di allora per timore che la potenza tedesca vincesse preferì essere alleato alla Germania di Hitler piuttorso che opporvisi”. Inoltre secondo Berlusconi le leggi razziali “sono la peggior colpa del leader Mussolini che per tanti altri versi aveva fatto bene. Non abbiamo la stessa responsabilità della Germania, ci fu da parte nostra -conclude- una connivenza che all’inizio non fu completamente consapevole”.
Le ragioni di parole simili a un mese da elezioni che si svolgono in uno scenario ancora difficile per il leader del PDL sono, secondo me, più complesse di quel che sembrano. Da oltre un decennio, questo lo sappiamo tutti, Berlusconi ha intessuto particolari rapporti di cordialità con ambienti apertamente nostalgici del Ventennio, portati avanti a volte in modo palese, come in questo caso, e a volte più sottotraccia e in luoghi meno facilmente riconducibili alla vita politica e istituzionale, come nel caso della pubblicazione all’onor del mondo di falsi diari di Mussolini dal contenuto parzialmente apologetico che da decenni sono stati rigettati dalla critica, salvo tornare magicamente “buoni” alla bisogna. Del resto, a più riprese Berlusconi ha ricevuto elogi e attestati di stima da parte di quel variegato universo, essenzialmente perché per la prima volta un interlocutore “di peso” si rivolgeva ai nostalgici senza chiedere loro di “ripulirsi” il curriculum politico, e anzi considerando sostanzialmente irrilevante quello che pensavano, purché fossero disponibili a svolgere il ruolo di stampella elettorale e di consenso nei confronti di un governo di destra, in cambio della gratificazione di prebende e proventi da sottogoverno da cui erano stati perennemente esclusi. Anche in questo caso il recupero di alcuni capisaldi dell’apologetica filofascista più comune, dalla tendenza a scaricare le colpe sui “cattivi” tedeschi all’individuare nelle leggi razziali il punto di non ritorno per un regime “altrimenti non così cattivo”, sono evidenti.
Ma molto probabilmente Berlusconi, qui come in altre occasioni, ad esempio quando nel 2008 aveva apertamente dichiarato l’irrilevanza dell’antifascismo nella sua “mappa” ideale, punta anche a un altro risultato. Al di là del numero tutto sommato sparuto di nostalgici del regime, il corpo elettorale italiano vede la presenza di un gran numero di persone che non pone la necessità di prendere le distanze dal fascismo e dalle pratiche autoritarie in cima alle proprie priorità per giudicare un uomo politico o una figura intellettuale. Senza scendere in specificazioni eccessive sulle modalità in cui una certa immagine diffusa del regime mussoliniano si è formata nell’immaginario collettivo, e ai modi in cui essa può legarsi con la difficoltà a “fare i conti” con un passato che per troppo tempo abbiamo finto che non ci appartenesse grazie al comodo schermo dell’identificazione nei partiti dell'”arco costituzionale”, quello che conta è che è effettivamente reale la presenza di persone che considerano il fascismo in termini attenuati e ovattati, e non sentono in alcun modo necessario di prendere posizione. L’era della politicizzazione forzata nel partito unico e della partecipazione alle organizzazioni di disciplinamento di massa viene spesso descritta, incredibilmente, nelle forme di una de-politicizzazione del paese, quasi nei termini vetero-qualunquisti di un governo che, togliendo al popolo l’incombenza di partecipare alle competizioni elettorali, restituiva tempo ed energie alla vita privata e agli affari individuali.
In questi termini edulcorati dalla dimensione della violenza, della coercizione, del plagio delle coscienze, ecc., il fascismo diventa sempre più frequentemente un momento della nostra storia più facilmente “digeribile”, e non bisognoso di un supplemento di riflessione, al punto che chi pretende il contrario, magari in forza di legge con l’istituzione di commemorazioni formali, diventa nella più bonaria delle interpretazioni uno scocciatore, nella peggiore delle ipotesi un “potere” che impone alla collettività una lettura della realtà storica che non piace.
Berlusconi, facendo propria una lettura depoliticizzata e aproblematica del fascismo, tenta di atteggiarsi ad alfiere di una massa di italiani che conserva gelosamente la tranquillità della propria coscienza eludendo problemi storici che non sente suoi. E il modo peggiore per rispondergli è quello che sta invece accadendo proprio ora. Decine e decine di figure di spicco della vita politica e intellettuale italiana stanno reagendo con una critica alle sue parole assolutamente inefficace. Essa sembra fondata esclusivamente sul fatto che la condanna delle responsabilità italiane nelle persecuzioni antiebraiche è stata stabilita per legge con l’istituzione di una giornata per la loro commemorazione, e che non appoggiare la versione “ufficiale” sia essenzialmente un gesto di cattivo gusto che urta la sensibilità dell’opinione pubblica “politicamente corretta”.
Questo è il modo migliore per tornare a fare anche di Berlusconi un “martire” del “sistema” che impone di celebrare una verità storica di Stato nel giorno della memoria.
Sarebbe invece necessario lasciar perdere gli attacchi di stampo moralista, che Berlusconi aspetta come il pane per “buttarla in caciara”, e far notare innanzi tutto che le sue parole gridano vendetta di fronte all’ormai ricca messe di studi scientifici sul tema. I presunti “timori” dell’Italia nei confronti di una Germania potente e lanciata verso la vittoria cozzano contro tutte le interpretazioni più convincenti sul senso della “non belligeranza”, ovvero di quella posizione di estraneità al conflitto armato da parte di una potenza, il regno d’Italia, già da tempo impegnata in una solida alleanza con Berlino. Le leggi razziali, approvate a più riprese nei vari aspetti della vita associata nel 1938, sono sicuramente un fenomeno complesso, anche perché è vero che nell’orizzonte ideale del fascismo l’antisemitismo comparve più tardi e in modo meno evidente di quanto era avvenuto in Germania. Tuttavia, ormai gli studi sul tema promossi anche da noi possono risolvere diversi interrogativi. Senz’altro i provvedimenti antisemiti qualcosa (ma non molto) hanno a che fare con un avvicinamento anche ideologico al nazismo tedesco, ma assai più chiaramente rappresentano il punto di arrivo di un complesso intreccio di rivitalizzazione delle battaglie “antiborghesi” tornate d’attualità con l’autarchia, repulsione del diverso e disciplina dei contatti con esso maturata rapidamente nel corso della permanenza militare africana, pulsioni antiebraiche e forme di diffidenza diffuse sia sul piano religioso che nella cultura popolare, derive autoritarie delle riflessioni sull’eugenetica sviluppatesi nei decenni precedenti in tutto l’occidente con l’incontro tra miglioramenti nella scienza medica e il “positivismo sociale”. La loro analisi in questo contesto chiarisce al meglio perché i provvedimenti antiebraici furono tutt’altro che rifiutati o soggetti a una generale edulcorazione dei loro effetti sociali da parte degli “italiani brava gente”, e anzi aiuta a porre alcune domande sulle radici culturali profonde del successo di altri provvedimenti dalla (nemmeno troppo) velata natura discriminatoria come la legge “Bossi-Fini” sull’immigrazione.
Ecco, probabilmente di fronte alla sparata berlusconiana è più efficace reagire con l’unica difesa che può permetterci di sviluppare gli anticorpi contro derive politiche di varia natura come quella del 1922 o del 1994: la conoscenza. Le parole dell’ex premier sono inaccettabili in primo luogo perché scientificamente infondate, e concepibili solo da un ignorante, nel senso tecnico del termine. Il resto venga di conseguenza.