Il ventre di Sara è quello dell’attesa, come ogni madre al suo primo figlio difende il diritto di smuovere dalle radici il corso delle nature. È il 1976, anno in cui la furia degli smerci scarica una nube tossica di diossina sulle teste degli abitanti di Seveso. Sara vive lì da sempre, nel parco ha imparato a nominare i fiori e, quando iniziano a piovere carcasse al posto delle primavere, davanti alle maschere dei chimici che irridono la sua purezza intransigente non riesce a far altro che ricordare le specie botaniche rase al suolo dal veleno. Quel male fuoriuscito dall’Icmesa, l’azienda produttrice di disinfettante per ospedali e che, all’insaputa dei dipendenti, ha surriscaldato gli impianti per ottenere un derivato altamente tossico su cui le bombe al napalm del Vietnam hanno già detto molto.
Dalla psicosi del contagio, filtrata attraverso un’identità femminile isolata o in coro, sino alla questione sociale e allo sbocco sacro nelle invocazioni sospese tra credo e rivendicazione di un miracolo, Roberto Cavosi intaglia con Anima errante quadri intrisi di tragedia e visionarietà. Non una scappatoia, ma una sovrapposizione di strati e materie che come la diossina vanno a depositarsi gli uni sugli altri fino a non trovare margini effettivi di salvezza.
La scena è monumentale, incombente così come concepita dalla regia di Carmelo Rifici: un accostamento di mura difensive, cancellate e filo spinato che ruotano e diventano interno squallido da motel, chiesa o cimitero, quasi a marcare la fusione della guerra con la battaglia dei vivi impotenti. Si sovraccarica, dunque, una vicenda che ha fatto irruzione nella cronaca e attraverso proiezioni video torna a provare il vero, fuso con il canto di tre giovani donne sul destino di quegli angeli cui mai verrà restituito il volto. Morti e malformazioni, dermatiti procurate dalla nube cancerogena e sterminatrice di feti sani, fanno cercare altrove una risposta, a errare come anime in terre di mezzo ripulendosi della polvere grigia con gesti nervosi, scatti dove la danza è più che altro il segno drammaturgico del fare posto a una vita negata.
La scrittura del personaggio di Maria, nel blu icona del suo velo e del viaggio di famiglie senza meta, prosciugate dai reattori dell’Icmesa, compare come alter ego di Sara fino alla trattativa delle due per scambiarsi i ruoli. “Un figlio per un altro figlio”, l’annunciazione dell’angelo per il dialogo con una ginecologa dietro un vetro opalino. Sara ha gridato alla pretesa del miracolo, ha gridato con Davide, il marito ateo e insofferente a qualsiasi resurrezione e ha ricevuto in cambio la visita della Vergine. Un lascito che, oltre qualsiasi epidemia e disgrazia, racconta universalmente di una madre che non può rifiutare la croce.
Ecco che allora il cattolicesimo tormentato di Cavosi si lascia meglio abitare quando dalle prime scene Sara parla di sé in didascalia, come dietro uno schermo con al centro la lotta per non abortire. Lo stesso afflato rischia di disperdersi, invece, una volta indossati i colori di Maria. Il grembiule fa da guscio al ventre della chiocciola, eppure, lo scambio dei veli non rafforza la verità di una madre incapace di difendere il proprio figlio crocifisso sul Seveso, che è un Golgota di anime condannate.
La bravura dolente di Maddalena Crippa nei panni di Sara-Maria e la risposta di Francesco Colella, un Davide ruvido di viscere e risentimento, sanno ripulire regia e drammaturgia dai limiti di un avvicendamento forse volutamente disarmonico di generi e stilemi: dal dramma sacro al neorealismo fino ai solipsismi più contemporanei e dostoevskijani. Ma qui il senso di colpa non c’entra, c’entra piuttosto il bisogno d’acqua e pulizia di un personaggio impolverato che dialoga con il Nazareno, un proprietario di fabbrica certo d’aver costruito la propria giustizia. In lui esplode all’opposto l’urgenza degli altri, i vinti, di vedersi restituita un’esistenza non più ingrata e avara di ricompense.
Segni su segni che, pur nella bellezza e mistero di un miracolo invocato da pelli screpolate e “schiene piegate sulle vertebre”, tende in parte a offuscarsi in un magma di dubbi terreni e sacralità certo contrarie al silenzio più indifferente.
dal 10 al 27 gennaio 2013
Tieffe Teatro Menotti – Milano
ANIMA ERRANTE
di Roberto Cavosi
con Maddalena Crippa, Francesco Colella, Carlotta Viscovo, Francesca Mària, Stefania Medri, Raffaella Tagliabue
regia Carmelo Rifici
in collaborazione con Proxima Res, Fondazione Istituto Dramma Popolare di SanMiniato, Festival
dello Spirito di Varese