Il palcoscenico è sghembo come l’economia argentina che fino al 2001 ha visto alternarsi tentativi di risanamento da evasione fiscale e debito pubblico. Rafael Spregelburd, drammaturgo di Buenos Aires in perenne smania di affrancamento dalle convenzioni più rassicuranti, modella la scrittura de Il panico come nuovo vizio della sua Eptalogia di Hieronymus Bosch, dove lo straniamento dei vivi guarda incosciente allo specchio dei morti.
Chi vive respira un’aria malata e senza direzione, chi è morto si aggira incapace di accettare il muro che lo divide da sguardi di carne e sangue. Tutto quanto reca in sé un’opposizione di stati esistenziali e un senso incurabile di terrore coincide con la ridefinizione del panico secondo Spregelburd. Non più l’accidioso dantesco che incarna l’inerzia o indolenza indifferente per “difetto d’ira”, ma l’ombra contemporanea della paura che fa compiere atti senza ragione e rispolvera mali atavici.
Nella seconda scalata ai peccati capitali riscritti dall’autore argentino, dopo il gioco delle parti e degli spazi mirabilmente messo in atto ne La modestia, Ronconi prima insinua e poi calca ne Il panico lo strumento registico a lui più familiare, quello dei congegni cerebrali e scenografici attinti da spirali dissacratorie. L’eccesso e lo stordimento iniziale di un’agente immobiliare, Iaia Forte, che tenta di vendere un appartamento infestato dagli spiriti fa da cornice all’incontro con la famiglia di Lourdes Grynberg. Un nucleo tremulo, composto da una madre Giocasta, la sempre impeccabile Maria Paiato, che ha perso la chiave dell’eredità del compagno-figlio morto Emilio e coinvolge chiunque in una ricerca disperante. Una chiave già aggancio simbolico del labirinto che Cecilia Roviro, funzionaria della banca Tornquist interpretata da una grottesca Alvia Reale, non intende aprire e mostrare. Ed è un labirinto di famiglie anzitutto, un gomitolo da cui anche Jessica, la figlia maggiore di Lourdes resa con grinta da Francesca Ciocchetti, prova a sciogliersi immergendosi nell’altrettanto torbida materia delle prove per un’assurda coreografia di teatro-danza.
Sedici i nomi e le attoralità, sedici le permanenze sfuggenti di una drammaturgia che gioca al rimbalzo verbale e alla fuga impervia nel trascendente. Come le danzatrici riunite in conflitto di linguaggi e venerazione verso un’insegnante caricatura dei maestri – una giustamente sospesa ed egomaniaca Manuela Mandracchia – così le feste a casa Grynberg sono un’accozzaglia di individualità e diagonali di una scena instabile. Una realtà ignara di coordinate che non siano quelle di una bambola meccanica appartenuta agli oggetti di casa, tanto quanto la chiave introvabile dell’eredità.
Nel vizio prendono posto anche gli abusi, le relazioni clandestine che del primo e unico morto – Emilio-Paolo Pierobon, chiamato a restituire circolarità al dramma dall’inizio alla fine e a rendere fitta la nebbia del confine materiale – raccolgono i semi sparsi entro la storia. Voci che fanno sì che della recitazione enigmatica ronconiana si respiri in Regina-Elena Ghiaurov – amante di Emilio, per l’omicidio del quale è rinchiusa in carcere – la versione molesta di un vivere che non si riconosce altro che gioco di melodrammi, concatenazione di ossessioni e battute che non vogliono intrattenere, ma rovesciare ed erodere sinistramente il limbo dei corpi.
Dalla continua alternanza di piani e personaggi, registri e versioni, nuances acide dei costumi e dilatazioni del dire fino alle sbavature illogiche attorno a un rapporto col femminile quanto meno tormentato – emblematica a proposito la tirata bislacca della sensitiva Susana Lastri, un’eroica Sandra Toffolatti, sulle urgenze del sesso femminile e le pochezze degli atti e modi di quello maschile – si struttura il nero del poliziesco che dà lo scheletro alla trama. Una morte attorno a cui si sviscerano panici che, lo ricorda il terapeuta, testimoniano come: «In certe società organizzate intorno al capitalismo estremo ormai non dovremmo parlare di pazzia, ma di mero adattamento».
Ed ecco che prende vita anche il disagio della ballerina sostituita perché problematica, un’attenta Valeria Milillo di cui nessuno comprende la lingua di fianco all’occhio spalancato di Fabrizio Falco nei panni del più giovane figlio di Lourdes oppresso per ingenuità. Solo il falso libro egiziano dei morti nell’appartamento impossibile da affittare e in custodia segreta a un’agente penitenziario, prende vita nelle ultime parole di Emilio su un angolo di palcoscenico che si alza e si abbassa. Un territorio in bilico come il resto di un’architettura scenografica fatta di pareti di carta e mobili che scorrono per dare vita a tasselli di un mosaico complesso che non si prefigge di far tornare i conti, ma sfruttare la precisione dei movimenti e l’incastro dei dialoghi, proprio per attraversare l’accavallamento e la confusione di un mondo in cui tutto slitta.
Tutto è cioè scardinato e privo di un posto: la regia di Ronconi amplifica il rumore di fondo di un copione che si aggroviglia a volte lungamente fino a compiacersi. Ne esce salva la visibilità e ironia di scenari che imboccano proprio la pericolosa complicità tra antichi saperi ed energie, tra un presente irrisolto e un aldilà sul filo della stessa corda tesa.
Piccolo Teatro Strehler
fino al 10 febbraio 2013
Il panico
di Rafael Spregelburd, traduzione Manuela Cherubini
regia Luca Ronconi
scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca
luci A.J. Weissbard, suono Hubert Westkemper
trucco e acconciature Aldo Signoretti
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa