È questione di un attimo.
Non sai nemmeno il perché l’hai deciso, o te ne accorgi troppo tardi. Non hai sicuramente ricordo di come ci sei arrivato. Spesso arrivi anche a chiederti chi sei. Ma capita così vorticosamente che ti ritrovi lì, spaesato. In coda all’ufficio postale.
La coda dell’ufficio postale è un’entità astratta. Appena varchi la soglia dell’ingresso si presenta lunga. Che siano le otto di mattina o mezzogiorno, sole o neve, ferragosto o Natale. È sempre lunga. In quel momento scatta l’impreco, tanto automatico e naturale che non è raro che un dipendente dell’ufficio risponda tranquillamente con un saluto.
Cercando di capire come è disposto il serpentone umano all’interno di quei dodici metri quadrati, ti metti in fila e attendi. Capita però, in un disgraziato momento, di guardare in basso, al bollettino che tieni tra le mani. Errore mortale. Quando alzi lo sguardo, la coda davanti a te è aumentata a dismisura, che neanche Escher potrebbe immaginare. Altra imprecazione. Altro saluto.
Gli uffici postali più evoluti, però, consentono di avere un ordine della coda dato da una selezione automatica garantita da una macchinetta. Quelle che se sbagli a scegliere la categoria del biglietto attendi invano mezza giornata e alla fine capisci perché nel codice penale è disciplinato il reato di strage.
Gli uffici a cinque stelle, poi, hanno addirittura delle sedie.
Spesso ci si trovano sedute famiglie che pranzano con i sette figli. Anziani spaesati in attesa dalla settimana prima, convinti che quando arriverà il loro turno li chiameranno, come dal dottore.
In mezzo a tutto questo, tu e il tuo fido bollettino tra le mani.
Preso dallo sconforto, in quel Nirvana di rabbia interiore che sfuma in frustrazione, pensi. E realizzi che i dipendenti dell’ufficio postale non sono tutti uguali.
C’è il dipendente chiaramente folle, con il quale stai sempre attento a quel che dici perché hai paura che cominci ad urlare e, in un crescendo di acuto, gli esploda la testa come un palloncino. Solitamente è uomo, spesso strabico. Di sicuro porta gli occhiali e ha i baffi.
C’è il dipendente lento. La piaga dell’ufficio postale. Quello che sbaglia sempre il resto e riparte a contare da capo. Quello che se gli fai una domanda, non fargli mai una domanda!, si blocca fino ad ottenere il parere del Papa sul modulo corretto per la raccomandata uno. Se è uomo, di solito è grasso e con la faccia da tonto. Se è donna, porta sulle spalle uno scialle di lana, anche a Siracusa in un mezzogiorno di agosto.
C’è il dipendente autoritario. Sa tutto lui e non sbaglia mai. Se devi spedire un pacco a Brindisi e lui dice che ci va scritto Aosta, deve essere così. È lui al di là dello sportello. Ha lui il potere. Tu arrivi a temerlo. A volte, alla fine, gli lasci anche l’orologio in dono.
Le ore scorrono lente, tra improbabili libri in offerta, servizi bancari e telefonici (ma non era una posta?), orde di pensionati che sono in attesa dalle sette di mattina per poi avere il resto della giornata libera per non fare nulla. E disagio, molto disagio.
Dopo la terza apparizione mariana, ti interroghi sotto le grinfie di quale dipendente finirai, chiedendoti di quale morte preferiresti morire.
Qualsiasi esso sarà, una cosa è certa. Quando arriverà il tuo turno, ci sarà sempre un ulteriore modulo da compilare, per il quale “si può mettere intanto da parte a compilarlo, che così vado avanti con la coda?”.
Non tornerà mai più il tuo turno.
“Il lavoro d’equipe è essenziale. Ti permette di dare la colpa a qualcun altro” (Arthur Bloch)