La privacy (o meglio la sua soglia di tollerabilità) è un concetto relativo. Ci siamo arrivati io e Marco dopo un pomeriggio di erba e disillusione passato a parlare di quei quattro (cinque?) coglioni che mi avevano rapinato la notte prima, di quello che resta dei nostri orizzonti lavorativi, delle scopate che ci siamo persi e del mio tarlo di fare il girodelmondo. Seduto sul davanzale della finestra in cucina bevevo l’ultimo goccio di Martini mentre ho iniziato ad elencare tutte le voci diverse che si sentivano da lì. Un uomo sempre incazzatissimo coi figli, ma un’incazzatura di quelle che credi stiano lì lì per sfociare in un’altra tragedia da lavaggio del cervello mediatico, urla senza tregua la sua delusione contro questo ragazzo che di tanto in tanto senti rispondere a tono, non senza una leggera vibrazione sul finale di ogni parola, che ne tradisce la paura indebolendo in un istante qualsiasi velleità del linguaggio. Una donna (giovane?) che implora pietà con la voce supplichevolmente terrorizzata, la senti ansimare, ti sembra di vederla che si copre con le braccia esili, in un retaggio di spirito di sopravvivenza, per proteggersi dalle mani volanti dell’uomo o scappa in un’altra stanza in una continua farsa matrimoniale dove lei fugge senza riuscire mai ad andare via. Una coppia che litiga di continuo, lui è un campione dell’insulto coniugale, tu pensi di aver sentito il massimo e invece quello riesce sempre a superarsi, un turpiloquio perpetuo che trova in lei l’interlocutore ideale, una sfida da pesi massimi del rinfaccio domestico. Poi c’è il depresso dell’ultimo piano che solo occasionalmente tiene sveglio tutto il quartiere, tutta la notte, con monologhi retrospettivi, forse indirizzati a sua madre, e ambizioni suicide che non arrivano mai al tragico epilogo. Non si vede molto, anche nel pieno di questi trascinanti furori i nostri vicini hanno l’accortezza di accostare le imposte, ed è quest’attenzione puntuale e costante come un gesto innato che segna la differenza tra loro, autoctoni, e noi, immigrati di prima generazione che ancora a volte siamo costretti a rivestirci dietro le ante degli armadi perchè quelle maledette imposte le abbiamo dimenticate aperte.
Per quanto ne so il bastardo che mi teneva la mano alla gola mentre gli altri mi tastavano potrebbe essere il marito della giovane impaurita, o il fratello, e magari sono figli dell’uomo incazzatissimo, magari la voce tremolante sul finale delle parole è la sua, mentre viene sgridato per l’ennesima cazzata che ha fatto. Perchè ci vuole veramente una visione abbastanza alterata del mondo per rapinare una coppia, in pieno centro, in quattro (cinque?), e tornare vittoriosi di novanta euro e un cellulare inutilizzabile, lasciando beatamente al polso del malcapitato l’Hamilton regalato per la laurea. I poliziotti che hanno raccolto la denuncia erano così sorpresi dalla mia disponibilità a riconoscere i colpevoli che hanno chiamato subito una volante per farmi accompagnare sul luogo del delitto sperando che quei deficienti fossero ancora in zona, ma è quando Valeria ha preteso di venire con me che si sono veramente stupiti. Del resto se la rapina e il pestaggio di gruppo a mano disarmata (e incensurata) sono lo sport cittadino un po’ di omertosa complicità delle vittime ci deve pur’essere, pensavo mentre mi scarrozzavano per Forcella con la luce blu accesa e le sirene spente. I vicoli erano così familiari che mi sentivo un intruso nel retro di quell’auto, gli agenti mi indicavano persone che dall’aspetto sarebbero potuti essere benissimo miei conoscenti. Mi chiedevo quanti gradi facebook separassero me dai miei rapinatori, quali consumi ci accomunassero, quanto avessero davvero bisogno dei novanta euro in quattro (cinque?) che ci hanno preso. Descrivendoli alla polizia cercavo di individuare dei segni distintivi, un marchio impresso sui loro volti, o anche solo un particolare modo di portare i pantaloni che ne individuasse in maniera infallibile la propensione al sopruso, l’appartenenza netta al gruppo degli altri, di quelli che sarebbero pronti anche a inseguire una ragazza indifesa pur di appagare il loro bisogno di possesso. Non ne trovavo nessuno. Più tardi mi sarei chiesto che differenza passi tra una rapina e una truffa alla RCauto (per chi non lo sapesse il modo più diffuso di permettersi gli esosi premi previsti per le province del sud) ma al momento non riuscivo a togliermi dalla testa la somiglianza fra i miei avventori e (se non proprio me) molti dei miei amici.
Tecnicamente sono stato vittima di un esempio di microcriminalità, la chiamano così per indicare che è un fenomeno avulso da disegni criminali più sofisticati, un tipo di delitto che lascia uno spiraglio di possibilità alla redenzione, e la definizione finisce subito per diventare un comparativo di minoranza. Eppure la disperazione degli anziani derubati all’uscita della posta, trascinati sull’asfalto a cento all’ora dai motorini, non mi sembra un male minore come non mi sembrano minori i denti rotti dei ragazzi a Piazza del Gesù per uno sguardo di troppo. Negli ultimi quattro anni ho visto così spesso persone accanirsi in cinque, dieci contro il diverso di turno da abituarmi all’eventualità, difatti la rabbia maggiore subito dopo la rapina era quella che provavo verso me stesso per non aver fiutato il pericolo, proprio allo stesso modo in cui dimentico di chiudere le imposte, ho fatalmente esposto il mio lato debole al dirimpettaio malintenzionato. La leva che mi ha fatto considerare la denuncia come conseguenza naturale del torto subito non ha nessuna radice nella mia educazione di uomo del sud, è un desiderio di coerenza che nasce altrove in un occidente condiviso che mi imprime all’istante il marchio di oriundo.
Salivo vico San Domenico verso Piazzetta Miraglia avvinghiato a Valeria da un’empatia etilica che si chiudeva a guscio. La nostra città indossava il suo vestito migliore, quello che usa per accogliere gli emigranti, si rifletteva benissimo nei suoi occhi londinesi fino a diventare tanto bella da essere plausibile, da ritornarci a vivere sopra tutti i miei moniti. Il coglioncello che mi stava davanti e non si toglieva ci ha messo almeno tre secondi per attirare la mia attenzione, non abbastanza navigato da farmi paura, mi ha lasciato il tempo di spingere Valeria verso la piazza mentre loro mi circondavano e uno la raggiungeva senza troppi sforzi. Il maiale non ha nemmeno esitato a spingerla contro il muro mentre io vuotavo le tasche vittima del senso di protezione: se non fosse stato per lei ora sarei all’ospedale, pestato a sangue da un gruppo di ventenni così cazzoni da restituirmi il portafogli (vuoto) quando gliel’ho gridato, tutti fatti di cocaina, vestiti e profumati come alcuni dei miei migliori amici. Ci hanno detto che avremmo dovuto chiamare il 113 ma non avevamo il cellulare per ovvi motivi quindi siamo andati fino in quesura a parlare con i poliziotti distrutti da una notte in bianco, a passare al setaccio le facce di altri deficienti come i nostri aguzzini che però i nostri aguzzini non erano. Ci siamo avviati verso casa mia già stanchi per i due chilometri che avremmo dovuto fare a piedi ma abbiamo beccato un passaggio, quasi subito, da due studenti anche loro in evidente stato di agitazione. Hanno fatto il triplo della strada necessaria però erano divertenti, li ho invitati su per aprire la bottiglia di Martini che avrei finito il giorno dopo, seduto sul davanzale della mia cucina a tre metri dai miei potenziali salvatori e assassini, a Materdei, nel centro storico di Napoli.
Diptheria