«Per favore, non chiamatemi razzista. Ma questi albanesi sarebbe meglio che andassero ad ammazzarsi da qualche altra parte».
A commenti di questo genere, purtroppo, ci stiamo facendo l’orecchio tanto da scambiarli per normali. Da una parte c’è il fatto, in verità molto grave: un uomo fredda a colpi di pistola l’ex moglie e il suo nuovo compagno. Un duplice omicidio che lascia senza fiato i clienti di un supermercato alle porte dell’Aquila e sconvolge una famiglia con quattro figli, tutti minorenni. Dall’altra c’è un dato che alcuni leggono come attenuante, altri come aggravante: l’origine dei protagonisti della vicenda. È già perché, talvolta, una cosa è dire che a sparare è stato un italiano. Altra cosa è rilevare che a premere il grilletto è stato uno straniero. Analogamente, a leggere i tanti commenti apparsi sui social network nelle ultime ore sembra quasi che la morte abbia un valore diverso a seconda del passaporto. «Il valore della vita sta venendo meno quando, invece, la vita umana non ha prezzo né nazionalità», valuta Irina “Irene” Lefter, giornalista 32enne di Bachau (Romania) arrivata in Italia dopo una lunga esperienza a Realitatea, una tv privata nazionale, intervistata da Fabio Iuliano. Anche all’Aquila e in Abruzzo, Irene collabora con alcune testate locali, ma arrivare a fine mese non è cosa da poco. Nel suo Paese, invece, era tutto più facile, con una professione sicura e ben pagata. Ora la sua storia, personale e professionale, fa i conti con un tessuto sociale reso ancora più debole dal terremoto del 6 aprile 2009.
Un sisma che, se non altro per le prospettive annunciate di ricostruzione, ha attirato nel capoluogo molta manodopera straniera. Lavoratori, o aspiranti tali, provenienti prevalentemente dal Maghreb e dall’Europa dell’Est, disposti a sopportare condizioni di vita precarie, pur di potersi ritagliare un impiego. Varie realtà sociali sono impegnate nel fornire sostegno o risposte. Ricostruire insieme è un coordinamento di associazioni nato all’Aquila allo scopo di offrire un servizio di orientamento agli immigrati ed educazione alla convivialità delle differenze.
Irene, cosa ti ha spinto a lasciare un buon contratto in Romania e venire in Italia?
«Era il 2004 e sono arrivata quasi per scommessa. Prima di allora venivo spesso, ma solo in vacanza. Mi ha attirato l’orgoglio del “made in Italy”, una sorta di consapevolezza che a casa mia difficilmente si respirava. Poi c’è stata l’apertura delle frontiere. Quello che mi dispiace è che adesso l’atmosfera è cambiata e non riconosco più quei valori che mi hanno portata qui».
Che idea ti sei fatta di questa vicenda?
«Da giornalista penso che il ruolo fondamentale dei media sia quello di informare e trasmettere un messaggio chiaro e, per quanto possibile, attinente al vero. Ma credo anche che il nostro compito sia, in qualche modo, anche quello di “educare”. Un duplice omicidio, un caso di femminicidio, un episodio di violenza molto grave. Purtroppo, tragedie come questa vengono utilizzate in molti livelli per mettere in circolo dei contenuti razzisti. Succede quasi che l’informazione ti spinge a considerare intere comunità come delinquenti o assassini».
Eppure, sono tanti i commenti su Facebook e Twitter in cui gli aquilani esprimono preoccupazione per l’aumento di episodi di violenza, collegandoli all’aumento dell’immigrazione.
«Qui stiamo parlando di una persona che deve pagare per quello che ha fatto, non è giusto che paghi solo perché straniero. Soprattutto, quest’uomo non ha fatto quello che ha fatto perché è straniero. Alla base di questa vicenda ci sono delle problematiche umane, psicologiche e sociali che non si possono ignorare. Quello che mi indigna è la scarsa considerazione della vita umana. Penso a quelle persone che si sono lamentate del traffico sulla Statale, subito dopo gli spari, mettendo in secondo piano questo dramma familiare».
Pensando al difficile contesto sociale del post-terremoto, quali sono i principali problemi di integrazione delle comunità straniere?
«Purtroppo, le difficoltà alloggiative del post-sisma (difficoltà condivise da tutte) hanno facilitato la formazione di piccoli insediamenti di famiglie della stessa etnia-nazionalità. Fenomeni del genere rendono più difficile l’integrazione. Da fuori, queste piccole comunità sono viste come ghetti, ma c’è chiusura anche da dentro. Stranieri diffidenti verso gli italiani: una sorta di razzismo al contrario. Di questo passo non andiamo avanti».
“Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese; donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti”. [L’ufficio immigrazione degli Usa diceva questo di noi italiani all’inizio del XX Secolo].