Lezione di storia americana, parte 2. “Lincoln” di Steven Spielberg si concentra sugli ultimi mesi di vita del sedicesimo presidente degli Stati Uniti d’America (nonché primo presidente repubblicano in assoluto), tra il gennaio 1865 e quel 15 aprile in cui venne assassinato a teatro per mano di John Wilkes Booth, celebre attore di teatro simpatizzante sudista.
L’azione del film prende il via nel corso della terribile guerra di secessione, lotta civile che infiammò quelle terre a partire dal 1861. Stati Uniti d’America e Stati Confederati d’America, nord contro sud: le ragioni della guerra erano complesse, ma avevano al centro la schiavitù. Da tempo ormai il protrarsi della guerra stava sfiancando le due parti e tutto il popolo, e pareva che da un momento all’altro – se non per altro per “consunzione” – il sud dovesse arrendersi.
In questa delicatissima situazione politica, Lincoln nelle elezioni del 1864 venne rieletto – il giuramento avvenne poi il 4 marzo 1865 – e colse strategicamente l’occasione per riproporre la cosiddetta Proclamazione dell’emancipazione che portò poi all’abolizione della schiavitù.
Dando – per i non storici e i non statunitensi – forse troppe cose per scontate, il racconto di Spielberg (il cui spunto iniziale è preso dal libro “Team of Rivals: The Political Genius of Abraham Lincoln” di Doris Kearns Goodwin) catapulta lo spettatore nel pieno dell’azione e delle trame politiche.
Per capire meglio (e prima) chi pensa cosa nel racconto bisogna aver chiaro un fatto: il Partito Repubblicano nacque nel 1854 per opporsi all’espansione dello schiavismo, e ad opporsi all’abolizione di questa pratica erano prevalentemente i democratici (i moderni progressisti che non conoscono la storia inorridiranno a sentirlo, ma solo con Franklin Delano Roosevelt e il New Deal negli anni ‘30 del Novecento i democratici diventarono quelli che conosciamo oggi).
Preso atto che (per una volta) dalla parte dei “buoni” al cinema non sono i democratici (Tommy Lee Jones, repubblicano di ferro, appare come il più progressista di tutti e deve limitare il suo impeto egualitario per non apparire un’estremista, ritenendo in cuor suo che uomini e donne di qualunque “colore” debbano essere considerati uguali…), diventa tutto un po’ più semplice: l’abilità di Lincoln fu quella di puntare a convincere – per raggiungere i due terzi dei voti necessari a far diventare legge la Proclamazione – alcuni deputati democratici che stavano a fine mandato e non più rieletti (non avendo più un elettorato a cui rispondere, pensava, sarebbero stati più facilmente “convincibili” a passare dall’altra parte: pratica quanto meno borderline per quanto riguarda legalità e virtù…).
Senza svelare troppo delle dinamiche avvincenti della sceneggiatura, questione da non sottovalutare fu la tempistica della Proclamazione e quella della resa sudista, le cui decisioni ovviamente furono prese anche in considerazione dell’abolizione della schiavitù, da essi considerata fondante per la propria economia. Aumentando gli Stati dell’Unione, ovviamente, sarebbero cambiate anche le percentuali di deputati favorevoli da ottenere…
E’ storia, invece, il fatto che quella legge passò e che la guerra finì definitivamente il 9 aprile 1865: quando tutto il suo lavoro aveva avuto il giusto coronamento, però, la sorte di Lincoln fu segnata. Pochi giorni dopo, come detto il 15 aprile, il presidente venne ucciso (gli spararono la sera prima, morì il mattino successivo).