A mente freddaRetoriche “baronali” e politica universitaria italiana

È noto, colà, il decalogo dell’aspirante a cattedre, il cui primo precetto è: sposare la figliuola di un vecchio professore. Così, ai primi del secolo scorso, scriveva Benedetto Croce, uomo tutto...

È noto, colà, il decalogo dell’aspirante a cattedre, il cui primo precetto è: sposare la figliuola di un vecchio professore.

Così, ai primi del secolo scorso, scriveva Benedetto Croce, uomo tutto d’un pezzo, che mai nella vita (potendoselo pure permettere, ricordiamo) si è abbassato alle viltà e alle asprezze di una carriera accademica in cui la capacità di curare le relazioni interpersonali faceva troppo spesso aggio sulle qualità professionali. Ma l’oggetto della critica crociana non era l’università italiana che aveva sotto gli occhi. Faceva infatti riferimento al mondo accademico tedesco, allora modello e riferimento mondiale per efficienza negli studi e risultati di ricerca praticamente in tutti i settori.

Nella sua critica, la pur autorevole voce del filosofo di Pescasseroli coglieva un sintomo effettivamente presente, senza però riflettere sulle cause profonde di certi elementi ricorrenti nella sociabilità accademica germanica. Da un lato, il rapporto stretto che si creava tra un docente e gli studenti a lui più vicini, e che portava spesso a far imparentare le varie generazioni di studiosi di uno stesso ambito disciplinare, era un elemento quasi strutturale di una concezione dello studio e del lavoro di ricerca in cui pubblico e privato non trovavano confini netti, in cui il seminario più ristretto, il Privatissimum, era tenuto spesso dal professore a casa propria, mentre moglie e figlia cucinavano per gli ospiti, e in cui la contiguità con gli allievi portava spesso alla maturazione di un affetto filiale. Dall’altro, il potere quasi sovrano che gli ordinari tedeschi avevano sul loro campo di studi nell’ateneo, e che li portava a dirigere sostanzialmente senza ostacoli la scelta dei collaboratori e la loro stessa “successione” in cattedra, era reale, ma rappresentava quasi un “anticorpo” del mondo intellettuale alla pubblica amministrazione invadente e autoritaria del Reich che spesso minacciava di condizionare la vita universitaria con sollecitazioni di carattere politico, ed era in ogni caso corretta dalla necessità dei giovani, nei primi stadi di carriera, di sviluppare un ampio consenso sul loro nome tra i professori di vari atenei al fine di assicurarsi le conferme annuali negli incarichi d’insegnamento e di ricerca.

Allo stesso modo, come ho già provato a mettere in evidenza in uno dei miei post di maggior successo almeno per numero di lettori e condivisioni “social”, bisogna usare cautela quando si fanno propri gli aspetti più radicali del diffuso giudizio sul potere decisionale dei “baroni” accademici italiani.

Storicamente, le dinamiche opache e inefficienti del sistema di reclutamento italiano derivano dalla tensione tra sistema nazionale e necessità delle sedi locali, che ha trovato un punto di incontro e di reciproca compensazione nelle relazioni interpersonali e nelle trattative tra docenti dello stesso ambito disciplinare. Troppo spesso, però, ci si limita a una molto più semplice invettiva contro la scarsa moralità di chi presiede allo svolgimento dei concorsi. Ora, finché si tratta di una liberatoria invettiva contro i “cattivi”, non c’è niente di male, e forse può essere utile per sfogarsi. Le cose però cambiano quando a far propria questa visione parziale e superficiale del problema è chi dovrebbe occuparsene seriamente per cercare di cambiare le cose, rendendo il nostro sistema di reclutamento più legittimo agli occhi dell’opinione pubblica e più efficiente nel soddisfare le esigenze di un sistema ormai da anni sotto sforzo e sotto pressione, che non può più permettersi di assegnare stipendi sicuri a chi non è in grado di contribuire in modo adeguato alla vita degli studi, rischiando di togliere risorse vitali per chi finora è riuscito, pur nelle strette di un contratto precario, di mantenere l’università italiana a un livello accettabile sul piano internazionale.

In effetti, spesso la retorica dei “baroni” è usata per sostenere argomenti e valutazioni che, a causa della sua fragilità, non può reggere, e con sempre maggiore frequenza comincia ad affiorare, in certe bocche che ne fanno uso smodato, una punta di mala fede. Tra gli addetti ai lavori, ad esempio, la diffusione delle accuse all’immoralità e allo scarso senso dello stato ha soprattutto una funzione di autoassoluzione: chi attualmente ha un posto di lavoro strutturato, lo ha ottenuto tramite il sistema di reclutamento che è sul banco degli imputati, quindi individuare il problema nella cattiva coscienza di alcuni individui salvava la legittimità della selezione concorsuale del personale nel suo complesso; d’altro canto andare alle radici del problema, cioè all’inefficienza del sistema nel suo insieme, avrebbe sostanzialmente portato a sostenere ciò che è nei fatti vero, cioè che chi oggi ha un posto all’università è stato scelto per averlo per ragioni sostanzialmente casuali, e che quindi quel posto potrebbe essere rimesso in discussione in una competizione a parità di tutele e di condizioni con chi, per ragioni altrettanto casuali, non è stato ancora assunto.

Ancora peggiore però è l’uso che più volte è stato fatto di queste retoriche in sede di elaborazione legislativa. Il processo di riforma coronato nel 2010 ha trovato, nel biennio precedente, proprio nell’attacco al personale universitario truffaldino e immorale che “truccava” i concorsi il propellente per avere un buon consenso come revisione radicale di un malfunzionamento cronico che si voleva causato esclusivamente da pratiche e costumi riprovevoli. Non è stata, del resto, la prima volta: dagli intensi lavori per il riordinamento dell’istruzione superiore italiana promossi dal governo con una commissione apposita a inizio Novecento ai tentativi di intervento nel clima del Sessantotto, passando per le “bonifiche” della cultura di Bottai e De Vecchi, la necessità di moralizzare comportamenti incivili è spesso stata l’avanguardia per far “passare” nell’opinione pubblica le proposte di cambiamento.

Anche in altri di questi casi, come in quello più recente, il risultato è stato quello di rendere più diretto e più forte il controllo verticistico delle istituzioni di formazione superiore. Col 2010, in particolare, proprio nel nome della lotta ai baroni si sono tirati fuori dal cilindro provvedimenti folcloristici come la presenza di un commissario straniero nelle commissioni di abilitazione, quasi ad assentire all’idea che la disonestà sia un “carattere nazionale” dei docenti italiani e che quindi gli stranieri possano dare garanzie, invece di pensare che se certi comportamenti discutibili sono generalizzati lo sono perché nel contesto in cui si opera sono la scelta più razionale, e che quindi anche gli stranieri, essendo razionali, si comporteranno di conseguenza. Ma si sono presi anche provvedimenti che fanno assai meno ridere sul controllo politico della distribuzione delle risorse, sulla determinazione del bilancio del settore, sull’autonomia decisionale degli istituti, sulla “misurazione” di ciò che è buono e di ciò che non lo è nei risultati di una carriera, sulla nomina dall’alto dei commissari e dei gruppi di verifica dei criteri di valutazione; il tutto escludendo con verticismo “giacobino” la partecipazione della comunità scientifica nel suo complesso, con l’obiettivo dichiarato di mettere fuori gioco una categoria professionale strutturalmente bacata e bisognosa di un nuovo disciplinamento forzato al comportamento eticamente corretto.

L’aperta messa in discussione di un’apparenza così diffusamente percepita e condannata ha avuto, non so se e in che misura consapevolmente (sempre che, in un’ottica di dinamiche socio-culturali complesse, abbia senso parlare di consapevolezza in questi comportamenti), la funzione di mantenere intatta la sostanza dei rapporti di potere istituzionale che presiedono alla fisiologia del sistema italiano. Si è radicalmente modificato il sistema di reclutamento delegittimando quello precedente, ma non solo si sono accettati acriticamente gli esiti di esso non promuovendo il licenziamento di nessuno; ora si sta pensando di ovviare alla sostanziale inconsistenza delle procedure di abilitazione con regole di assunzione sostanzialmente simili. Si è accentrato il controllo dei fondi disponibili essenzialmente per ridurne l’entità alle quote che si era disposti a spendere per un settore non prioritario, ma i decreti per l’attribuzione dei fondi per i Programmi di ricerca di rilevante interesse nazionale (PRIN), già da due anni, mostrano che in questa ristrutturazione i gruppi corporativi locali, ovvero il campo d’azione privilegiato dei “baroni” tanto condannati, non solo sono sopravvissuti indenni all’ondata di “pulizia”, ma continuano ad essere parte attiva nei sistemi di distribuzione. Da questo punto di vista sono significative alcune delle considerazioni sull’ultimo bando per il principale finanziamento alla ricerca di base che, in un altro blog legato a questa testata, fa Renzo Bragantini:

Chi non fosse in grado di proporre progetti dotati di «visibilità» e «attrattività» […] sarebbe tagliato fuori automaticamente da qualsiasi bando, che dovrebbe essere invece pensato allo scopo di premiare il merito oggettivo delle singole ricerche. Lascio inoltre immaginare, visto l’altissimo potere di discrezione conferito alla fase di preselezione e al rettore (il quale ultimo nomina il comitato di preselezione), quale speranza di successo potrebbe mai avere un progetto ideato da chi si fosse solo azzardato a disturbare il manovratore. A parte il caso personale (il vostro blogger, che ha più volte, e invano, chieste le dimissioni del proprio rettore, Luigi Frati, “convivente” nella stessa Università con tre familiari stretti e un nipote, sarà meglio si levi ogni fantasia in merito), non sfuggirà a nessuno come il bando, concepito in modo aberrante e formulato secondo logica deplorevole, sia funzionale a un’Università che tenda a perpetuare se stessa, nella più classica tradizione di un’istituzione vecchia e ormai morta (anche se affetta di non saperlo): non c’è che dire, proprio la ricetta che occorre per rendere il nostro Paese “competitivo”, secondo ogni momento viene strombazzato in via ufficiale.

Spero questo serva da lezione per coloro che, nella sacrosanta battaglia per modificare gli equilibri funzionali della nostra vita universitaria, intendono scegliere meglio i loro obiettivi polemici e i termini delle proteste.

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