A mente freddaIl Pd sembra l’unico interessato a istruzione e ricerca (ma con delle pecche)

Tornato al computer dopo un bel po’ di tempo, con un’appendice in meno e un paio di piccole cicatrici in più, trovo che il 14 febbraio sul sito del Partito democratico è apparsa la proposta program...

Tornato al computer dopo un bel po’ di tempo, con un’appendice in meno e un paio di piccole cicatrici in più, trovo che il 14 febbraio sul sito del Partito democratico è apparsa la proposta programmatica relativa al sistema di formazione superiore e ricerca.

A dieci giorni dal voto, per gli addetti ai lavori e non solo, il documento è importante per varie ragioni. Il PD avrà quasi sicuramente un ruolo di primo piano alle elezioni, e il suo leader Pierluigi Bersani è ancora la figura con maggiori probabilità di andare a Palazzo Chigi (anche se non è ben chiaro con quale maggioranza a sostegno). Bersani stesso ha poi chiarito in più occasioni che la prossima sarà, per scuola e università, una “legislatura costituente”, in cui occorrerà stabilire assetti istituzionali e funzionali duraturi dopo una stagione di interventi legislativi profondi, contrastanti e spesso modificati prima di essere applicati. Nel parco dei candidati del partito certi di elezione in Parlamento, inoltre, figurano individualità di un certo peso nella politica accademica, che si sono presentate nell’arena delle politiche 2013 con un programma decisamente orientato alla rimodulazione delle istituzioni universitarie. Su tutte, spicca la capolista alla Camera per la Toscana, Maria Chiara Carrozza, direttrice della seconda scuola d’eccellenza pisana, la Scuola superiore “Sant’Anna”, e forte quindi di un’esperienza professionale “sul campo” nella direzione di uno degli istituti italiani più rappresentativi a livello internazionale.

A tutto questo, è da aggiungere il fatto che sulle proposte di politica universitaria il PD mantiene un ruolo di primo piano semplicemente per esclusione. Il PDL ha infatti presentato un programma spiccatamente settoriale, teso pressoché esclusivamente a mobilitare settori dell’opinione pubblica tradizionalmente sensibili ai suoi richiami e a riallacciare i rapporti con alcuni collettori professionali di voti nelle aree dove maggiormente pesa il voto di scambio, e ha quindi definitivamente gettato la maschera rivelando (troppo tardi) il suo supremo disinteresse per l’istruzione superiore. Il Movimento 5 Stelle, nei suoi proclami d’insieme sul tema, non è andato oltre l’assicurazione di voler “abolire la legge Gelmini”, non è chiaro per sostituirla con cosa. Per quanto riguarda l’armata Brancaleone di Ingroia, questo tema non è certo l’unico in cui lo speaker di riferimento si è dimostrato in ogni uscita pubblica pressoché completamente impreparato. Resta la coalizione raccolta attorno a Mario Monti, figura che sicuramente dal suo operato come docente e dirigente universitario deriva gran parte della reputazione che lo contraddistingue: già nel corso della sua esperienza di governo avevo sottolineato come ciò stridesse con una politica universitaria sostanzialmente inconsistente; alcune prese di posizione ufficiali in campagna elettorale, soprattutto quelle che rivendicavano come positivo l’operato del ministro Profumo, hanno chiarito che l’obiettivo “centrista” sul tema è quello di promuovere un puro e semplice adeguamento degli organismi accademici alle tendenze di fondo della vita economica italiana, senza chiedersi se tali tendenze dovrebbero invece essere osteggiate da un governo che abbia a cuore la sopravvivenza del paese nella competizione internazionale delle competenze e della conoscenza. Come ha sostenuto un osservatore attento tempo fa, sui problemi accademici il gruppo-Monti non fa altro che sottintendere in modo un po’ furbastro i concetti uno dei suoi competitori di area, la lista di Oscar Giannino, esprime in modo assai più onesto intellettualmente:

Il governo dei professori ha avuto certamente il merito di ricostruire la credibilità internazionale del paese, ma è stato il più cinico nei confronti del proprio mondo. C’è da domandarsi perché. Hanno portato la situazione al punto più critico, ma forse anche più chiaro. È venuto allo scoperto un orientamento consolidato dell’establishment che ritiene sufficiente un sistema universitario più piccolo dell’attuale. Dall’economia italiana, infatti, viene una domanda di formazione e di ricerca inferiore alla media europea e di conseguenza il fondo per l’università può essere anche ridotto e molte sedi possono chiudere. In altri paesi tale politica verrebbe osteggiata proprio dall’establishment. Da noi invece i poteri economici e politici insistono su questa linea bassa di sviluppo e fanno finta di non vedere che proprio essa è la causa della crisi di produttività e dello stesso deficit pubblico.

I democratici, insomma, sembrano l’unica forza politica seriamente interessata a produrre un’azione di rilancio dell’istruzione superiore e della ricerca. Leggere la loro proposta programmatica, consapevoli come si deve essere che essa rappresenta l’unica speranza di un intervento positivo di qualche tipo sulla nostra realtà accademica aiuta a comprendere come il partito intende operare al di là delle frasi fatte sulla necessità di alimentare la formazione, sull’investimento in istruzione necessario in tempi di crisi, e in generale al di là delle affermazioni di buon senso destinate a lasciare il tempo che trovano.

Nel suo impianto generale, il testo sembra innervato da una concretezza e da una attenzione all’applicabilità e alla gradualità dei provvedimenti che spesso era mancata in altre prese di posizione provenienti dalla stessa area: infatti, pare esprimere da un lato una maggiore consapevolezza di alcuni effetti distorsivi dell’ultimo ciclo di interventi legislativi da sanare, dall’altro il sano pragmatismo di chi sa che gli atenei non possono reggere alla quarta terapia d’urto in dieci anni, e che quindi è necessario almeno nel breve periodo procedere ai miglioramenti e i reindirizzamenti compatibili col quadro normativo attuale, garantendo all’università la possibilità di funzionare senza nuovi scossoni.

In sostanza gli obiettivi principali che si vogliono individuare per invertire la tendenza discendente del nostro mondo universitario sono:

In tutto questo, credo di poter leggere la benefica influenza di un gruppo di lavoro in cui la Carrozza ha avuto un ruolo di rilievo, sia per la migliore conoscenza di alcuni aspetti della vita dell’organismo-università dal suo interno, sia per la presenza di spunti che da tempo rappresentano le punte più avanzate della riflessione sull’università in atto in Toscana, regione in cui formazione superiore e ricerca scientifica hanno un ruolo sociale ed economico forse unico in Italia, e che non a caso riesce a ottenere risultati sempre relativamente buoni per la qualità dei servizi del diritto allo studio, per l’offerta dottorale e per la collocazione internazionale dei suoi atenei di punta. Si tratta di un passo in avanti rispetto alla genericità delle prese di posizione di cui si è spesso reso responsabile Marco Meloni, nei fatti incapace di uscire dalle retoriche sul “merito” e sull’“eccellenza” che già tanti danni ha prodotto in questi anni, ma abbastanza generiche da inglobare tutta la vasta serie di interessi e pulsioni contrastanti che il PD cerca di coagulare attorno a sé nel mondo universitario. Sul piano del metodo, insomma, sembra che con l’avvicinarsi alle elezioni si cerchi meritoriamente di uscire dalle pure e semplici necessità “politiciste” di federare consenso a scapito dell’incisività delle proposte, in vista di un’azione di governo (magari contrattata con altri partner) non più rinviabile.

Nel merito delle proposte, chi conosce questo blog (e/o ha avuto la pazienza di “surfare” tra i link ai miei interventi precedenti che ho disseminato a titolo esplicativo) sa che buona parte dell’impianto generale tratteggiato dal documento PD mi trova tutto sommato d’accordo; magari auspicherei maggiore radicalità, ma comprendo altrettanto bene che alcuni elementi di moderazione nei rivolgimenti legislativi hanno una ragion d’essere dettata dall’applicabilità.

Detto questo, in più casi gli strumenti e i percorsi che si intendono mettere in opera per il conseguimento delle finalità prefissate mi lasciano un po’ perplesso, sia quando sono chiaramente esplicitati, sia soprattutto quando sono coperti da un velo di oblio che, generalmente, serve a nascondere incertezze e preoccupazioni di fronte alla necessità di un supplemento di dibattito e di contrattazione tra le parti interessate.

Per cominciare, il problema dei problemi: partendo dal presupposto che occorre rispettare vincoli di bilancio (che ce li abbiano imposti è irrilevante: con questo debito, non chiudere tutti i prossimi trent’anni con un saldo positivo nel bilancio sarebbe semplicemente da incoscienti, e forse il fatto che il resto del mondo si rifiuti di finanziarci se non a condizioni a prova di bomba è quasi un bene), e tenendo conto che non si può pensare a un ulteriore aumento del carico fiscale se non nell’ambito di una riforma generale delle modalità di imposizione che richiederebbe anni, i soldi per investire in conoscenza da dove arriveranno? In altri termini, quali altre voci di spesa saranno tagliate senza pietà? Quali settori dipendenti dalla benevola concessione di soldi statali dovranno soffocare in una lunga e dolorosa agonia? Quali elettori, quindi, dovranno evitare come la peste di votare PD perché dalla loro morte dipenderà la sopravvivenza di strutture universitarie considerate strategicamente più importanti? Evidentemente, la gerarchia delle priorità di chi dovrà essere salvato dagli stanziamenti dei prossimi anni e di chi dovrà perire è ancora da fare, e sarà oggetto di un prevedibile tira-e-molla tra i ministeri, che tradizionalmente in Italia hanno come compito privilegiato garantire voce in capitolo a chi supporta il ministro in carica e le sue strutture di consenso. Un primo abbozzo di soluzione per andare oltre questa guerra di parrocchie sembra essere l’istituzione di un’Agenzia di programmazione e finanziamento della ricerca, elemento su cui si dovrà basare un più ampio coordinamento intergovernativo delle politiche di ricerca prima gestite da dicasteri diversi. Questo lavoro di armonizzazione potrebbe anche rendere meno asfittiche le modalità di gestione del problema degli istituti di produzione della conoscenza, ma i criteri di applicazione sono descritti in modo insufficiente, e tutto sembra più un auspicio che un autentico spunto programmatico già pronto per la prova dei fatti.

Sulla questione del dottorato di ricerca, al di là dell’individuazione di alcune criticità fondamentali, restano irrisolti alcuni punti di primaria importanza sul piano concreto. Si vuole chiarire, finalmente, che i dottorandi di ricerca vivono un percorso di formazione, e che quindi è necessario rendere questo percorso in primo luogo il più efficace e competitivo possibile sul piano dello sviluppo di un ventaglio di competenze solido e versatile, evitando così di trasformare i giovani laureati che scelgono l’opzione dottorale in “ricercatori usa e getta” da usare semplicemente come uomini di fatica ai gradini più basso della catena gerarchica di un progetto di ricerca. Tutto questo dovrà naturalmente comportare, e lo si dice a chiare lettere, l’utilizzabilità della formazione dottorale in tutto il mondo delle occupazioni ad alto coefficiente intellettuale. I modi in cui ai dottori saranno aperte le opportunità professionali lasciano perplessi, visto che non si va al di là di un riconoscimento del titolo di studio nei concorsi. Ciò da un lato è mortificante, visto che il dottore di ricerca deve potersi affermare in quanto più competente degli altri in alcuni ambiti professionali, eventualmente a scapito di chi quelle competenze non ha, non certo perché una legge obbliga alla finzione di attribuire forzosamente un valore a un pezzo di carta. Ma è anche in netta controtendenza con l’idea, secondo me buona proprio perché pragmatica su un tema troppo spesso ideologizzato, di “eliminare l’uso distorto” del “valore legale del titolo di studio” che troppo bene conosciamo nelle selezioni pubbliche. Pure la differenza all’apparenza quasi nulla nel regime contrattuale tra i dottorandi (che sono studenti) e i ricercatori ai primi livelli di carriera (che sono professionisti) sembra contraddire quanto detto in precedenza sulla ricerca di un “vero ruolo” per il Ph.D., e sembra piuttosto voler accontentare le associazioni rappresentative che, al contrario, vedono in esso l’unica funzione di selezionare ricercatori in pectore nei fatti già inseriti nelle carriere accademiche al momento della vittoria del posto dottorale, anche a costo di ridurre al minimo il numero di posti disponibili in relazione alle disponibilità dei ruoli.

Infine un punto dolente caratteristico, per il partito che storicamente assomma i riferimenti politici “storici” delle corporazioni universitarie più fameliche, è quello della gestione del reclutamento. Al di là delle buone intenzioni, alcuni nodi che già i pasticci gelminiani non avevano risolto sembrano ancora accuratamente evitati. Il (sicuramente benefico) incentivo alla mobilità tra sedi, elemento necessario per dare sostanza all’autonomia gestionale degli atenei e per dare spazio a strategie di miglioramento della propria offerta di servizi da parte di tutte le università, sembra pensato esclusivamente attraverso l’imposizione di obblighi e proibizioni, col classico tentativo all’italiana di scimmiottare per decreto le pratiche di carriera e di selezione del personale che nel resto del mondo avvengono semplicemente perché così vanno le cose in un sistema aperto. I tecnicismi su ruoli e fasce per gli strutturati non pongono neppure il problema delle migliaia di ricercatori le cui chiassose richieste di aumento di stipendio e di considerazione sociale stanno bellamente chiudendo la strada a quei precari a cui, a parole, si vogliono aprire le porte. Le garanzie occupazionali degli assunti continuano (vista l’assenza di soluzioni al problema) ad essere del tutto sganciate dalla qualità e dall’utilità del loro servizio, nonostante la volontà di procedere a un ulteriore miglioramento delle procedure di valutazione delle sedi, che dovrebbe avere come prerequisito la possibilità che le sedi valutate si liberino dei pesi morti della cui presenza a libro paga non sono responsabili. Del resto, un serio sistema di valutazione ex post per orientare l’assegnazione dei fondi governativi dovrebbe essere accompagnato da una maggiore libertà d’azione dei dipartimenti nel comporre il proprio corpo docente e ricercatore, eventualmente pagandone le conseguenze con chiusure di rubinetto e successivi commissariamenti nei casi estremi. E invece si insiste sui “bandi nazionali” per ogni tipo di selezione, che non sono solo un ingenuo retaggio dell’idea che all’università si assume male perché i “baroni” sono cattivi e che quindi rendendo ancor più arzigogolato, lungo ed elefantiaco il procedimento di assunzione le cose miglioreranno perché i “baroni” non ci capiranno più niente.

In generale, infatti, su questo tema l’esigenza dominante sembra quella di non toccare i ruoli acquisiti e l tutele sullo status degli assunti, sui quali evidentemente i sindacati sono pronti a ringhiare. La conseguenza nemmeno troppo difficilmente prevedibile di questo atteggiamento è che, non diversamente dal 2010, tutte le strettoie finanziarie e valutative del processo di adeguamento degli atenei finiranno per gravare sulle spalle di chi deve ancora essere assunto. L’uscita da questa strettoia, su un tema che per tutta l’impalcatura accademica italiana è assolutamente essenziale, rappresenterà il vero banco di prova per capire fino a che punto il “semilavorato” rappresentato da questo documento programmatico potrà essere una seria base per un’azione di governo capace di incidere, e non solo di subire le pressioni dei gruppi sociali di riferimento, come per troppo tempo il PD invece ha fatto sulla questione universitaria.

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