Sicurezza e privacy, certo, sono i motivi contingenti che hanno spinto alla scelta di far risiedere papa Ratzinger all’interno del Vaticano. Ma ce n’è un terzo, più sottile e meno immediatamente percepibile, che è quello della conservazione dell’immunità: decaduta quella diplomatica con il decadere della carica di capo di Stato, infatti, solo la residenza all’interno dello Stato della Città del Vaticano, in base ai Patti Lateranensi, può continuare a garantirgliela. Non un dato irrilevante, dal momento che, in passato, diverse iniziative hanno cercato di coinvolgere il pontefice per citarlo in giudizio. E questo sia durante il suo incarico precedente di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, sia per il ruolo di capo di Stato vaticano, come sottolinea il quotidiano The Huffington Post.
L’ambito è quello dello scandalo degli abusi sessuali perpetrati dal clero e dei processi avviati da varie associazioni delle vittime, specialmente negli Stati Uniti, che hanno coinvolto Ratzinger nel ruolo di “datore di lavoro” dei preti colpevoli di abusi, ma anche per il silenzio rispetto alla copertura da parte della Santa Sede.
Fu quanto accadde in Oregon nel 2010, quando, nell’ambito della denuncia di abusi sessuali commessi negli anni ‘60 a Portland da un prete proveniente dall’Irlanda, i legali della vittima fecero leva sulla responsabilità diretta della Santa Sede, chiamata a rispondere delle azioni dei suoi “dipendenti”. L’accusa, per la Santa Sede, era di non aver preso provvedimenti limitandosi a trasferire il prete da una diocesi all’altra. La tesi, accolta dalla Corte d’appello dell’Oregon ma contestata dai legali del Vaticano, fu discussa davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti, che contestò l’immunità per la Santa Sede, stabilendo che il tribunale potesse proseguire nell’accertamento delle specifiche responsabilità degli organi vaticani.
In Wisconsin un analogo processo venne archiviato. L’avvocato Jeff Anderson, in rappresentanza di centinaia di vittime di abusi sessuali, aveva depositato una notifica di archiviazione – che comporta l’immediata chiusura del procedimento senza bisogno che la Corte si esprima – per un’azione legale che riguardava gli abusi perpretati, tra il 1950 e il 1974, da p. Lawrence Murphy. Secondo i documenti pubblicati nel 2010 dal New York Times, nel 1998, investita della questione, la Congregazione per la Dottrina della Fede, allora guidata da Ratzinger, rifiutò di procedere contro p. Murphy. «Era anziano e in precarie condizioni di salute», aveva motivato al quotidiano statunitense il portavoce della Sala stampa vaticana, p. Federico Lombardi, sottolineando che la Congregazione era venuta a conoscenza della questione solo a 20 anni di distanza dalla denuncia dei fatti alle autorità diocesane e di polizia. La notizia dell’archiviazione fu accolta con entusiasmo dall’avvocato che rappresenta la Santa Sede negli Usa, per il quale si trattava di una causa tenuta insieme solo da una «rete mendace di accuse infondate di complotti internazionali».
Non fu possibile aggirare l’immunità diplomatica di Benedetto XVI nemmeno nel 2010 quando, durante la sua visita in Gran Bretagna, lo scrittore inglese Richard Dawkins e il giornalista Christopher Hitchens chiesero l’arresto del papa.
Ma già nel febbraio 2005 Ratzinger, allora “solo” prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, era stato citato in giudizio per “ostruzione alla giustizia” davanti al tribunale dalla Corte distrettuale della contea di Harris (Texas). Secondo l’avvocato Shea, infatti, il testo emanato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 2001, l’Istruzione De delictis gravioribus che imponeva il silenzio su tutti i casi di pedofilia di cui i vescovi cattolici fossero venuti a conoscenza, avrebbe favorito la copertura di prelati coinvolti nei casi di molestie sessuali ai danni di minori negli Stati Uniti. La corte texana emise un ordine di comparizione per il prefetto del dicastero vaticano. Ma il 19 aprile 2005 Ratzinger fu eletto papa e i suoi legali negli Stati Uniti si rivolsero al Dipartimento di Stato Usa per chiedere l’immunità diplomatica per il loro assistito. L’amministrazione Bush acconsentì, anche per l’evidente imbarazzo che avrebbe suscitato l’audizione giudiziaria di un papa. E’ evidente, però, che con il passare del tempo le condanne per copertura degli abusi stanno colpendo sempre più in alto nella scala gerarchica ecclesiastica: basti pensare al recente coinvolgimento dell’ex arcivescovo di Los Angeles, card. Roger Mahony, che dovrà deporre in tribunale il prossimo 23 febbraio e la cui corrispondenza con la Santa Sede sul tema è compresa nelle migliaia di pagine di documentazione rese pubbliche.
I legali delle vittime di abusi presentarono, poi, nell’autunno 2011 un esposto alla Corte Penale Internazionale dell’Aia per dimostrare che «i più alti livelli del Vaticano hanno tollerato e reso possibile la copertura sistematica e diffusa di stupri e crimini sessuali contro bambini di tutto il mondo». Ancora non si conosce l’esito della procedura. Certo è, in ogni caso, che Ratzinger, al riparo del monastero Mater Ecclesiae, all’interno delle mura vaticane, potrà dormire sonni più tranquilli. Lo affermano anche funzionari vaticani: «La sua permanenza in Vaticano è necessaria – conferma un’autorità vaticana citata in forma anonima in un articolo dell’Huffington Post – altrimenti sarebbe indifeso. Altrove non avrebbe la sua immunità, le sue prerogative, la sua sicurezza».