Giovani EnergieLa Finanza che ha vinto la Crisi: le Commodity Trading House

Erano i primi albori della recente crisi economica, la peggiore degli ultimi cinquant’anni, quando un discusso editoriale del Financial Times tuonò: «una crisi è una cosa terribile da sprecare». A ...

Erano i primi albori della recente crisi economica, la peggiore degli ultimi cinquant’anni, quando un discusso editoriale del Financial Times tuonò: «una crisi è una cosa terribile da sprecare».
A quattro anni da quelle parole, in uno scenario ancora caratterizzato da una crisi sistemica del mondo bancario e da modelli industriali da re-inventare, qualcuno sembra aver imparato la lezione. Con sorpresa dei migliori pronostici, proprio all’interno dello stesso mondo finanziario è possibile trovare i “vincitori” dell‘ultima crisi economica: le commodity trading house.

Questo reportage cercherà di raccontarvi chi sono, quel è il loro modello di business e qualcosa in più di queste indiscrete e misteriose istituzioni finanziarie.


Il centro finanziario di Singapore è diventato negli ultimi anni l’hub delle commodity in Asia

Al centro del sistema, ripartendo da ciò che più è necessario
Le commodity trading house sono i motori del commercio mondiale di materie prime, garantendo al sistema liquidità e sicurezza di approvvigionamento di ogni bene energetico (petrolio, gas naturale, etc.), agricolo (soia, grano, etc.), metallifero (oro, rame, etc.) e altro (legno, etc.).

Le più grandi tra queste istituzioni sono dei veri e propri giganti finanziari attivi in ogni mercato primario e a ogni latitudine, come per esempio Glencore (anche nota in Italia per i suoi impanti metallurgici a Portovesme), Vitol, Mercuria e Trafigura. Non di minore rilevanza sono anche altre trading house di dimensioni minori, ma specializzate in precisi mercati o prodotti – per esempio Gunvor per le risorse energetiche russe, Cargill per i prodotti agricoli, Louis Dreyfus per il cotone, etc.

Nel loro originario modello di business, in normali condizioni di scambio, la trading house riceve un piccolo compenso (in percentuale del prezzo finale) su ogni transazione operata. La natura stessa delle materie prime, in quanto beni non differenziabili, ha per molti anni tenuto bassi questi margini di profitto. A conseguenza di ciò, i vari operatori industriali attivi nei rispetti settori di utilizzo della materia prima non hanno trovato economico internalizzarne il commercio, lasciando quindi un notevole spazio di azione in questa vitale connessione di mercato.

A cambiare la loro fortuna, è stata inizialmente la crescente domanda mondiale di beni primari – tale da sostenere un alto livello dei prezzi (e quindi dei profitti) per oltre dieci anni. Sulla scia della trasformazione industriale e l’urbanizzazione dei BRIC (letteralmente Brasile, Russia, India e Cina, ma non solo), gli anni 2000 possono infatti definirsi un “commodity supercycle”.

Come le nuove regolamentazioni premiano ancora una volta il rischio (purché al di fuori del sistema)
Ma ben oltre i prezzi sostenuti e gli opinabili successi operativi o manageriali, il nuovo successo economico delle trading house negli “anni terribili” della crisi economica sono stati resi possibili dalla nuova regolamentazione dei mercati finanziari.

Con l’intenzione di ridurre il coefficiente di rischio dei vari gruppi bancari, le nuove regole hanno reso non-sostenibile o hanno direttamente impedito il commercio di materie prime da parte dell‘intero comparto finanziario tradizionale.

A dimostrazione di questa transizione, le maggiori banche d‘investimento hanno venduto o dismesso i loro team (e migliori trader) operanti nel settore. Un esempio più ripreso dalla stampa è stata la recente cessione a Trafigura del dirigente mondiale del mercato delle commodity di Barclays.

In aggiunta, restrizioni commerciali verso paesi politicamente scomodi hanno ridotto ulteriormente la competizione nel settore. Per esempio, con l’embargo dell’Iran soltanto le istituzioni legalmente localizzate fuori dell’Unione Europea e dagli Stati Uniti hanno ancora possibilità di operare nel paese – e la realtà mostra che le maggiori trading house siano in fatti domiciliate in Svizzera.

Un modello economico scegliendo il rischio
Nella sofisticazione del business model di queste aziende, vi è comunque una variabile in grado di giustificare un ben più lucrativo premium di prezzo: il servizio offerto in condizioni economico-politiche altamente rischiose.
Questa sofisticazione del loro modello economico di profitto è più semplice di quanto si creda. La trading house, forte di un bilancio economico solido, può permettersi di rifornire di materie prime nazioni o aziende che altrimenti non avrebbero accesso ai normali canali di mercato – sia a causa di precarie condizioni economiche, guerre o sanzioni internazionali.

In questi anni in fatti paesi come Libia, Egitto, Siria, Yemen, Sud Sudan, Iran e la stessa Grecia hanno dovuto accettare contratti a condizioni economiche svantaggiose per garantire i loro approvvigionamenti nazionali.
Facendo riferimento alle indiscrezioni dell‘agenzia Thomson Reuters, ogni trading house che avesse accettato di rifornire l’Iran avrebbe ricevuto una media di 2 milioni di dollari in profitti netti per ogni cargo Panamax, contro i 200,000 $ ottenibili sul mercato “convenzionale”.
L’Egitto dei giorni precedenti alle elezioni politiche, nell‘esigenza di evitare ulteriori tensioni per l’assenza di carburante, ha accettato premium di prezzo di oltre 1,25 milioni di dollari per ogni cargo petrolifero – oltre il 25% in più rispetto alla normale condizione di mercato.
Ancora più impressionante per la sua vicinanza all’Italia e per il suo status di nazione europea è il caso della Grecia. La giornalista Emma Farge ha riportato la notizia che, a seguito dell’embargo sul petrolio iraniano e nel mezzo della crisi sul debito sovrano, Atene è stata costretta ad aprire un debito di circa 300 milioni di euro per acquisiti di petrolio dalle due major Glencore e Vitol. Poiché il sistema bancario mondiale aveva congelato le linee di credito verso il paese, le raffinerie nazionali (come la Hellenic) rischiarono di non poter garantire i necessari approvvigionamenti di carburante in assenza di liquidità finanziaria. Anche in questo caso, le due trading house hanno avuto modo di imporre un cospicuo premium di prezzo – secondo le stesse indiscrezioni: di 50 centesimi per ogni barile di greggio.

Una trasformazione/integrazione verticale
Guardando oltre il loro tradizione ruolo di “middleman business” (i.e. vendendo e comprando materia prima), durante gli anni della crisi le maggiori trading house hanno intrapreso un processo di complessa integrazione verticale.
Grazie ai loro ricchi profitti e un mercato relativamente depresso nei prezzi, queste istituzioni hanno acquistato diretto possesso di molti asset reali e internalizzato i processi di produzione, raffinazione e logistica.
La fusione da 70 miliardi di dollari tra la trading house Glencore e il colosso minerario Xstrata é stata emblematica nel mostrare questo trend. Ma non mancano altri esempi. Nel comparto agricolo, sempre Glencore ha da poche settimane acquistato il “gigante del grano” Viterra per una cifra di 6,1 miliardi di dollari. Cargill ha invece operato il suo più grande investimento di sempre, comprando il produttore di mangimi per animali Provimi per 2,1 miliardi di dollari. Vitol e Gunvor hanno infine recentemente acquistato tre raffinerie (andate sul mercato dopo il fallimento della svizzera Petroplus).

In secondo luogo, un altro aspetto di questa trasformazione del settore riguarda la gestione finanziaria di questi nuovi colossi. A permettere l’intero processo d’integrazione verticale non è bastata infatti la combinazione di ricchi profitti e prezzi sostenibili. Buona parte del finanziamento di queste nuove operazioni è stata resa possibile dell’ingresso di fondi sovrani e private equity nel capitale azionario delle maggiori trading house.
Tra gli altri, il fondo sovrano cinese ‘China Investment Corporation’ è entrato nel capital di Noble Group; la ‘Government Investment Corporation’ di Singapore ha acquistato il 5% di Bunge; ‘Temasek’ (altro fondo di Singapore) ha investito ingentemente in Olam e Aabar, e gli arabi dello stato di Abu Dhabi e della ‘Qatar Holding’ sono oggi tra i maggiori azionisti della stessa Glencore-Xstrata.

In aggiunta, la nuova prosperità del settore e la positiva liquidità del mercato obbligazionario hanno permesso ad altre trading house di emettere bond a tassi molti vantaggiosi. Per esempio, Louis Dreyfus ha emesso nel 2011 il suo primo bond in oltre 160 anni di storia, volto a finanziare un ambizioso programma di investimenti.

Questi tipi di finanziamento (i.e. fondi sovrani, private equity e bond pluriennali) sono conseguenza e causa di un sentimento di fiducia dei mercati verso il settore. Sono forme di finanziamento che rimangono ben preferibili all’eccessiva volatilità che caratterizza la materia prima stessa, e di conseguenza ben preferibili al finanziamento per mezzo di capitale azionario (come i movimenti del titolo di Glencore ben hanno dimostrato).

Il quartier generale della trading house Glencore, nel cantone svizzero di Zugo

“Too big to fail”?
In ultima analisi, viene spontaneo chiedersi se queste istituzioni finanziare siano già i nuovi colossi “too big to fail”, pertanto in diritto di ricevere finanziamenti pubblici e veri e propri (costosi) salvataggi nazionali.

Benché, a onor del vero, una crisi del settore non sia oggi attesa da nessun operatore di mercato, nel mondo finanziario (e non solo) ben si ricorda l’effetto distruttivo dei due storici (e inattesi) fallimenti di aziende di questo tipo. Quando nel 2001 André & Cie (una trading house in prodotti agricoli) e soprattutto Enron (il colosso americano del gas naturale e energia elettrica) dichiarano bancarotta, severissime furono le conseguenze. Eppure, al tempo, i principali rischi sistemici si originavano pressoché esclusivamente da considerazioni di credito. Eppure, a differenza delle attuali major, nessuno dei due player citati ricopriva a livello operativo un ruolo così “centrale” nei mercati primari internazionali.

Ebbene, alcune autorità di regolamentazione dei mercati americani e europei hanno in fatti recentemente ammesso di sapere ancora ben poco riguardo al rischio sistemico originabile dal fallimento di una o più commodity trading house. Ma se una prima risposta affermativa alla domanda “too big to fail” è stata già formulata dalla Banca Centrale del Canada, per bocca del suo deputy governor Timothy Lane; resta da chiedersi se questa riconosciuta centralità nel sistema sia un fattore positivo per le stesse trading house.

Secondo molti, questo riconoscimento porterà inevitabilmente a un’iniziale regolamentazione delle loro attività – in ultimo, rischiando di minare le fondamenta di un modello di business basato sull’alto rischio di molte operazioni.

Molte trading house (tra cui Glencore) sono infatti, legalmente collocate nel cantone di Zugo, in Svizzera. Una scelta vantaggiosa non soltanto per i notevoli vantaggi fiscali elvetici, ma anche per la permissiva legislazione sulla trasparenza di bilancio. E la sorte vuole che sia proprio il Financial Stability Board, con sede nella vicina Basilea, a dover proporre e co-ordinare le attese regolamentazioni finanziarie.

Come prima decisione, il Financial Stability Board dovrà quindi investigare il ruolo delle trading house nel mondo bancario sommerso (“shadow banking”), e infine decidere se inserire queste istituzioni nel circolo ristretto della finanza “sistemicamente importante” – al pari di hedge fund e asset management.
A mio modo di vedere, è doveroso ammettere che non è l’attuale ruolo di queste istituzioni nel mondo dello shadow banking a rappresentarne al meglio l’importanza. Ma è altrettanto inopinabile il riconoscere che le varie trading house svolgono con efficacia la funzione di creditori del sistema – aprendo linee di credito a svariati produttori (gruppi minerari come agricoli), con l’effetto di migliorare la tempistica d’investimento.

In conclusione, il loro successo negli anni travagliati della crisi economica è una storia di espansioni in nuovi mercati (nuovi prodotti, paesi e mezzi finanziari), un saggio mix di solidità finanziaria strutturale e temerarie operazioni ad alto rischio. Il tutto è sommato alla fortuna di agire (finanziariamente) alla base dell’economia reale, in un mondo che ha lasciato poche fortune ai giganti della “finanza di carta”.
In ogni caso, la loro inclusione nel club allargato del mondo bancario (cioè la loro inclusione tra le istituzioni “sistemicamente necessarie”), potrebbe davvero segnare un punto di svolta nella storia della finanza che vinse la crisi.

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