Lavorare con l’hijab? Quasi una “mission impossible” per le donne convertite italiane. Se, per le donne nate musulmane e cresciute qui, è magari difficile all’inizio, ma poi si accetta per il rispetto di un aspetto della cultura altrui, per una donna ritornata all’Islam, è ben altro paio di maniche.
Lo stupore iniziale, quando al colloquio della candidata con nome e cognome italiani, si presenta una donna velata, lascia spazio a domande in cui, più che le capacità della candidata, si indaga sul suo credo religioso.
Mariama (questo il nome islamico scelto dopo la conversione), ha 41 anni e vive a Novara. E’ ritornata all’Islam da poco più di un anno: nessun marito musulmano che l’ha “spinta” verso questa scelta. “Ci sono arrivata maturando un bisogno interiore – racconta Mariama –: avevo amici musulmani via web che si stupivano che non lo fossi. Mi dicevano che, carne di maiale a parte, già pensavo, mi comportavo e lottavo per diritti che erano scritti nel Corano. Vengo da un’educazione cattolica, ho letto più volte vecchio e nuovo Testamento; non avevo mai letto il Corano per intero: quando l’ho fatto ho capito che i miei amici avevano ragione”.
Mariama decide di indossare l’hijab dopo quattro mesi, in un periodo certo non facile: abitava a Roma, in una zona dove si erano verificati gravi episodi di razzismo: l’uccisione di un indiano a botte, stranieri picchiati, donne velate insultate. “Non è stato semplice decidere di indossarlo: le persone che mi conoscevano mi consigliavano di non metterlo sia per paura, sia perché ero diventata fastidiosa, qualcosa di cui i vicini potevano sparlare. Ma ho sfidato tutti, la mia paura compresa e oggi senza mi sento nuda”.
Una sfida a partire dal campo del lavoro: Mariama da giovane faceva la modella: “La mia vita – continua – era apparire. Ero pagata per farlo ed ero schiava di quel mondo. Lavoro a parte, passavo il tempo in vestiti larghi per camuffarmi, per essere lasciata in pace, perché nessuno si sentisse il diritto di valutarmi per il mio essere esteriormente e non interiormente. C’è una grossa differenza: se vai in banca a chiedere un libretto di assegni in più uscirai vincitrice se indosserai un tailleur malizioso corredato di gonna stretta e tacchi a spillo, se ci vai in tuta senza trucco lo avrai solo se il conto bancario sarà più interessante di te, se ci vai con un hijab quando entri ti guardano come se avessi sbagliato luogo e il direttore tende a farsi negare: devi avere un conto davvero molto importante per essere notata”. Dopo il lavoro di modella, Mariama ha lavorato come promoter negli ipermercati, fiere, vendite, un settore nel quale il primo impatto è senza dubbio essenziale . “L’abbigliamento, la scarpa, il trucco, l’apparire non volgare ma piacevole e professionale, mal si sposa con un velo in testa e mal si sposa con l’impatto di fiducia che la gente deve darti a prima vista – spiega Mariama -. L’empatia è la cosa principale per chi fa un lavoro come il mio: un velo in testa non fa empatia a nessuno in Italia, anzi ti guardano come se fossi un’abusata ed oppressa che ha bisogno di essere emancipata e salvata”. Non per questo Mariama si è persa d’animo, ed ha affrontato diversi colloqui di lavoro: “Presentandomi con l’hijab, durante il colloquio di lavoro si accertano che tu non voglia prendere pausa per pregare, che tu sia in grado di lavorare mentre fai ramadan e comunque non ti richiamano. La gente, soprattutto dopo l’11 settembre, ha letto libri scritti da chi ha vissuto un Islam malato a causa del suo forte condizionamento tradizionale e politico e crede che tutto l’Islam sia così. Spesso mi
chiedono, in nome delle donne davvero oppresse, di non mettere il velo, pensano che mettendocelo supportiamo la tesi di chi le opprime. Non capiscono che le femministe islamiche lottano per avere i diritti dati dall’Islam e ignorati dai maschilisti e non per togliersi il velo e schiavizzarsi dentro un paio di tacchi 12. Il velo è mio e me lo gestisco io: solo il Corano unito alla fede personale possono decidere cosa mettersi in testa. Io voglio far vedere al mondo la mia appartenenza a Dio, il mio voler essere lasciata in pace, rispettata, vista ma non guardata. E’ la mia libertà di parola che, in connubio con il velo, mi permette di essere riconosciuta e valutata per quello che dico e non per quello che mostro”.
“Ho smesso di preoccuparmi troppo delle reazioni delle persone (come un signore sul treno che, pur di non stare vicino a lei, ha cambiato posto, ndr) – conclude Mariama -: si abitueranno e quando lo faranno sarà più facile per tutte anche trovare lavoro ed è per questo che ho deciso di indossare il velo e lo consiglio a tutte: più siamo, prima si abitueranno alla nostra presenza, prima raggiungeremo diritti che oggi non abbiamo ma che ci sono stati dati da Allah e dalla Costituzione. Una donna italiana che diventa musulmana per scelta, mette in discussione le certezze della società sull’argomento fa vacillare la tesi che l’Islam è una religione violenta. E’ molto più facile concepire una donna che diventa musulmana per costrizione o per amore del marito, che una donna sola, emancipata, fisicamente piacevole. Emancipata per la società attuale significa avere un posto di lavoro, vestire alla moda, frequentare gente che conta, insomma una donna manager vincente e non significa essere libere di fare, pensare, muoversi senza dipendere da qualcuno. Il mio essermi staccata dai miei tacchi è la mia emancipazione ”.
Anche Amina, romana doc, 43 anni, ha avuto non poche difficoltà durante i colloqui di lavoro. Il marito di Amina è egiziano, ma la conversione di Amina è stata graduale, e lui non l’ha mai spinta nel compiere questo passo. “Potrei dire che la mia conversione è avvenuta in tre fasi – racconta -: la prima nel 1997, quando mi sono sposata nella moschea Al Rahman del Cairo, dove venni circondata da un mare di donne che volevano abbracciarmi e pregavano per me, commosse, in seguito alla mia Shahada (La dichiarazione di fede islamica, ndr). La seconda fase nel 2004: il periodo non era dei migliori, rapporti con i familiari tesi, solo ascoltando il Corano, anche se in arabo, provavo sollievo”. Dal 2006 all’estate del 2012 Amina abita al Cairo: il sentire l’adhan (il richiamo alla preghiera, ndr) cinque volte al giorno, vedere le persone che con devozione e precisione pregava Iddio, colpiscono positivamente Amina, che comincia a sentire l’esigenza di indossare l’hijab. “Mio marito mi diceva “ma che fai, l’araba? Se non sei convinta non fare gesti inutili, così prendi in giro solo te stessa. Ma io lo misi lo stesso, ma quando dovevo tornare a Roma, toglievo tutto, perché dovevo lavorare”. Poi Amina si ammala: ernia al disco, esaurimento nervoso e depressione. Fece un voto: se fosse guarita, avrebbe sempre indossato l’hijab. E così è stato.
La ricerca del lavoro comincia nel maggio dello scorso anno: “Appena mi presentavo al colloquio – racconta Amina -, neanche leggevano il mio curriculum, che subito esordivano in modo infelice”. Il primo colloquio è per un posto di segretaria (il lavoro per cui Amina ha studiato) in uno studio commercialista: le chiedono se ha intenzione di presentarsi in ufficio col velo, sottolineando come l’ufficio sia serio, i clienti di un certo livello e quindi “una segretaria così di certo non va bene per la nostra immagine”. Il secondo colloquio è per un lavoro in un call center: le chiedono come pensa di poter sentire bene le telefonate con il velo. Al terzo colloquio, vedendola con il velo, le dicono che assumono solo madrelingua italiane; quando Amina fa presente che lei è italiana, la liquidano con un “le faremo sapere”. “Qui a Roma – commenta Amina – se porti l’hijab forse puoi trovare lavoro nel settore delle pulizie o call center: lì non ti vede nessuno e non rovini l’immagine dell’azienda. Credo che si abbia ancora molta paura del diverso. Anche quando cammino per strada, la gente commenta malamente, quando dico che sono italiana mi chiedono perché mi vesto come un’extracomunitaria, aggiungendo che rischio le botte. Ho capito che le persone non sono abituate a vedere una donna italiana con l’hijab, fanno associazioni strane. Per non parlare degli uffici pubblici: lì se devo fare una pratica devo togliermi l’hijab, altrimenti continuano a ripetermi, anche se parlo italiano, che non capiscono e non mi danno retta”.
Le testimonianze di Amina e Mariama mi han fatto venire in mente la causa vinta da Nadia Eweida, cristiana copta che lavorava per la British Airways, licenziata perché portava al collo una croce d’argento, simbolo religioso (qui il link:http://frontierenews.it/2013/01/regno-unito-licenziata-per-la-croce-al-collo-british-airways-condannata/ )Anche l’hijab per queste donne è un simbolo religioso: perché per questa scelta devono essere discriminate?